Compromesso in arrivo sul debito americano
NEW YORK — C’è voluto un calo di 900 punti dell’indice Dow Jones in una settimana, un coro di appelli che ha unito il Fondo monetario internazionale, i governi cinese e giapponese. C’è voluto anche lo scandalo dei militari caduti sul fronte afgano, le cui vedove e orfani sono rimasti senza indennità. Di fronte a questa catena di disastri, alla fine qualcosa di è mosso nella saga che paralizza da 11 giorni alcuni rami dell’amministrazione federale. I repubblicani hanno ceduto almeno su un punto. Per evitare l’Apocalisse del default finanziario – evento annunciato per il 17 ottobre – sono disposti a votare un innalzamento del tetto del debito federale. A termine: rinviando la resa dei conti al 22 novembre. Scongiurando così la prospettiva che già la settimana prossima il Tesoro di Washington non abbia più il cash per onorare i suoi debiti, inclusi quelli con i detentori di bond. L’offerta è stata avanzata dal repubblicano John Boehner, che è presidente della camera dove la destra è maggioritaria. E’ un primo cedimento, dopo l’intrensigenza che aveva portato allo “shutdown” o serrata di Stato.
La Casa Bianca ha accolto con cauto ottimismo questo passo, il portavoce di Obama Jay Carney ha dichiarato: «Siamo lieti se inizia a prevalere un atteggiamento più favorevole». Ma i dubbi su questa soluzione ieri sera rimanevano. Anzitutto, l’apertura di Boehner consente di far slittare di sei settimane il default, ma l’evento catastrofico potrebbe ripresentarsi alla vigilia della festività di Thanksgiving. La condizione perché ciò non accada è che «il presidente accetti di negoziare sulla riforma del bilancio pubblico», inclusi tagli strutturali e sostanziali alle spese sociali che corrispondono a diritti acquisiti. Dunque si tratta di guadagnare tempo ma costringendo nuovamente
Obama a una maratona negoziale dalla quale i repubblicani si aspettano di estrarre concessioni rilevanti. Inoltre, l’offerta di Boehner riguarda solo il tetto del debito ma non interrompe affatto lo shutdown. Le due cose sono separate, anche se l’opinione pubblica americana e perfino tanti politici le confondono facilmente. La serrata di Stato, con 500.000 dipendenti pubblici a casa senza stipendio e diverse agenzie federali paralizzate, dipende dall’assenza di accordo sul rifinanziamento del bilancio corrente.
Altra cosa è il default, per evitare il quale occorre alzare il tetto legale sullo stock del debito, attualmente a 16.700 miliardi di dollari. Dunque lo shutdown continuerebbe anche e il default slitterebbe fino all’ultimo weekend di novembre.
Pur con questi limiti, il gesto di Boehner è stata la prima novità positiva dopo dieci giorni di stallo totale. Non a caso ieri Wall Street ha salutato l’annuncio con un poderoso rialzo: +300 punti del Dow Jones. La reazione dei mercati è significativa, perché tradizionalmente Wall Street è stata una constituency dell’establishment repubblicano. Negli ultimi giorni la “destra economica” – banchieri e top manager dell’industria – si sono profusi in appelli per evitare il default. Il segretario al Tesoro, Jack Lew, ancora ieri in un’audizione al Senato ha denunciato il rischio di pesanti contraccolpi sia per i risparmiatori (rialzo dei tassi e caduta di valore dei Treasury bond) sia per le imprese, colpite da un’ondata di sfiducia oltre che dal decurtamento di spese federali. Per Boehner e per i repubblicani moderati come lui, mettere a repentaglio la solvibilità degli Stati Uniti stava diventando un gioco pericoloso. Nei sondaggi il partito repubblicano emerge come un sicuro perdente dal lungo braccio di ferro con Obama: l’ultima rilevazione demoscopica dell’Associated Press segnala che il 62% degli americani dà la colpa alla destra per la paralisi attuale. Il primo cedimento di Boehner premia l’intransigenza del presidente.
E’ significativo che dalla proposta Boehner sembra sia scomparsa la richiesta di abrogare o rinviare la riforma sanitaria di Obama, il bersaglio prediletto della destra. E tuttavia la prospettiva di guadagnare solo sei settimane non è esaltante. Come dimostrato dagli appelli che giungono dai leader del resto del mondo in occasione dell’assemblea Fmi a Washington, non è concepibile che la più grossa economia del pianeta sia priva di un autentico governo dell’economia.
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