COLPEVOLI DUE VOLTE
Il corpo “nemico” è talvolta rispettato, quasi sempre profanato; nel primo caso viene sepolto in una tomba individuale, in un cimitero, nel secondo può essere esibito in pubblico o cancellato in una fossa comune, può essere smembrato, violato, distrutto. È come se, dal punto di vista dello storico, il nemico venga ucciso sempre “due volte”: la seconda morte è quella che induce una riflessione sull’uccisore, trasforma il corpo della vittima in uno straordinario documento per conoscere l’identità del carnefice.
Fu così per le vittime delle Fosse Ardeatine. Un medico legale, il professore Attilio Ascarelli, con il suo referto raccontò per primo la loro morte: «I caduti erano ammassati gli uni su gli altri così da formare una massa unica come acciughe messe in scatola e le frane avevano ricoperto i cadaveri e avevano fatto una specie di magma». Le carni si erano mischiate con un impasto di terra e detriti in una massa indistinta, metà minerale, metà umana. Ma in quel “magma” Ascarelli riuscì a decifrare gli ultimi attimi vissuti dalle vittime; avevano visto la loro morte guardando quella di chi li precedeva, avevano avuto il tempo di stringersi uno all’altro in un ultimo abbraccio, interi nuclei familiari: «Nelle prime duecento salme si sono riscontrate solo una o due salme di ebrei; poi il gruppo ebraico diventa sempre più numeroso.., ciò significa che gli ebrei sono entrati e sono stati uccisi insieme. Della famiglia Consiglio, che ha avuto quattro membri uccisi, tutte le quattro salme sono state trovate l’una vicina all’altra, fra cui una di un ragazzo quattordicenne… Le vittime erano 335… non c’è dubbio che tutti sono stati uccisi insieme. Tutti legati allo stesso modo, con lo stesso tipo di corda e sempre spogliati degli oggetti che avevano addosso».
Andò proprio così. «Vi furono sessantasette esecuzioni a gruppi di cinque» – avrebbe raccontato poi Kappler al suo processo – «Tornai dalle cave al mio ufficio. Mi vi trattenni un’ora e mezzo e nel frattempo mandai alle cave alcuni uomini del mio ufficio perché sparassero “il loro colpo”. Ritornai alle cave quando seppi che il mio subordinato Wetjen era ancora lì e non aveva sparato “il suo colpo”. Gli domandai perché non aveva sparato. Mi disse che sentiva ripugnanza. Allora gli spiegai tutte le ragioni per cui doveva compiere da buon soldato quell’atto. Mi rispose: “Avete ragione, ma la cosa non è facile”. Vi sentireste di sparare un colpo accanto a me? replicai. Alla sua affermativa risposta gli passai un braccio intorno alla vita e ci recammo insieme nella cava. Egli sparò accanto a me». Un colpo per ogni ufficiale, affinché tutti fossero coinvolti nell’esecuzione. La rappresaglia poteva anche appartenere alle leggi di guerra dei tedeschi; ma quel colpo sparato alla nuca da ognuno degli uomini dell’ufficio di Kappler significava la scelta di utilizzare i corpi delle vittime come un foglio di carta bollata su cui siglare un patto scellerato per rinsaldare la disciplina del gruppo e per essere tutti complici di tutti, nella prospettiva di un futuro processo penale.
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