Budget. Se si ferma l’America

by Sergio Segio | 2 Ottobre 2013 6:36

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È il giorno della penombra su Washington senza soldi.
Sembra che qualche invasore alieno abbia rapito e tenga in ostaggio nei lontani sobborghi gli uomini e le donne che nelle mattine di lavoro qui si sgomitano, sbattono le loro tracolle da laptop e zainetti, si aggrappano a bidoncini di caffelatte bollente, arrancano verso i cubicoli ministeriali nei quale consumeranno la giornata dei federali.
Sono le 9 del mattino quando scendo nell’underworld, nel mondo sotterraneo nel centro di Washington, dopo un transito in auto da Ferragosto italiano attraverso viali semivuoti. E qui lo shutdown, la serrata che gli estremisti della destra “boia chi molla” in Parlamento hanno imposto bloccando i fondi federali per costringere il governo centrale ad abbassare le saracinesche, diventa la semplice realtà del venditore etiope di falafel, acqua in bottiglia, pretzel, salsicciotti caldi, appisolato accanto al suo baracchino senza clienti, all’uscita sulla 12esima strada.
Washington DC, Distretto di Columbia, come va sempre aggiunto per non confonderla con lo Stato di Washington all’altro polo della nazione continente, è il cuore e il cervello di quel governo federale che allunga i propri terminali nervosi in tutto il mondo, dalla sentinella nei deserti afgani al Ranger con il cappello da Orso Yoghi che accoglie i turisti nel Parco di Yellowstone. E ieri, primo ottobre 2013, il cervello è stato messo in coma politico-farmacologico, il cuore batte lentamente, alle soglie della pura sopravvivenza. Il governo federale, nonostante l’apparente odio trasversale del pubblico per quei damn’bureaucrats di Washington e le solenni promesse di snellirlo, resta, fra dipendenti in uniforme e dipendenti in abiti civili, il primo datore di salari — se non di vero lavoro — della nazione. E da ieri notte alle ore 00.01 il sciur padrun, lo Zio Sam, ha smesso di pagare.
Sugli 800mila dipendenti del governo, 367mila vivono fra i tre milioni di residenti nella area metropolitana attorno a Washington e due terzi di loro si sono sentiti definire «personale non indispensabile», non essenziale, e sono rimasti a casa senza paga. I 103 chilometri della Beltway, la tangenziale, che ogni mattina feriale sono una ciambella di automobili muso-contro- sedere lenta al punto da permettere ai guidatori di sfogliare i loro tablet sul volante e alle signore di ritoccarsi il trucco e spalmare il rossetto, sembra l’anello di Indianapolis e il poliziotto fermo sulla sua auto blu deve essere troppo sbigottito dalla velocità del traffico per accendere l’albero di Natale sul tetto e corrermi dietro. Ho quasi la sensazione che mi faccia un cenno e mi sorrida, mentre gli schizzo davanti. La paralisi del governo ha qualche piacevole risvolto, come violare impunemente il limite di velocità.
Washington nel suo Ottobre Grigio, in un giorno di autunno un po’ lattiginoso, ma ancora molto dolce, è bellissima, ed è un peccato se i turisti che approfittano del clima sempre migliore dopo la fornace estiva siano fuggiti in massa. I Musei Smithsonian, quelli che esibiscono scheletri di tirannosauri, capsule spaziali, artefatti di lontanissimi indigeni Anasazi, scarpe di bambini ebrei consumati a Birkenau e Auschwitz, sono chiusi. Il celebre zoo, dove i riluttanti amori dei panda svogliati e le incerte gravidanze delle signore panda sono seguite come quelle di una principessa britannica, è chiuso. Gli Archivi di Stato, che esibiscono con premuroso orgoglio i certificati di nascita della Repubblica, sono chiusi. Il Congresso, il nobile orrore di marmo bianco con cupolone sulla collina, è chiuso ai visitatori. Persino l’Istituto Nazionale della Salute, dove la ricerca medica di frontiera accoglie i pazienti gravi di oggi per tentare di salvare in loro anche le vite di future generazioni, è semichiuso.
Non accetta più pazienti, né le richieste di ospedali e medici che a loro si rivolgono per ricerche e consulti.
Per ritrovare un ventricolo del cuore che ancora pompa regolarmente devo raggiungere l’aeroporto intitolato a Reagan sull’altra riva del fiume Potomac, dove i controllori di volo, le squadre per lo smaltimento dei bagagli e gli agenti del controllo di sicurezza, tutti dipendenti del governo federale, sono costretti a lavorare, ma senza paga. E il pensiero di svolazzare affidati alle cure di controllori furibondi per dover lavorare 24/24 senza vedere un centesimo fa sperare nella loro abnegazione e professionalità disinteressata. Ma, se al “Reagan Airport” tutto sembra normale, è facile trovare gli indizi di questo insensato, autoinflitto, stoltamente ideologico “Ottobre Grigio”. Le file dei controlli per le partenze sono lunghissime. Le valigie che girano sulla giostra della riconsegna sono pochissime, come le persone che le aspettano. Non è una fuga da Washington, che sarebbe troppo melodrammatico, ma oggi, e sempre di più se la “serrata” durasse settimane, sono più coloro che se ne vanno di coloro che arrivano. A far cosa, visto che “l’industria” principale, la burocrazia, è semichiusa e si chiuderà ancor di più?
Era dai giorni del duello fra Clinton e il Parlamento repubblicano, nel 1995 e poi anche nel 1996, che l’America non riviveva il blocco parziale della spesa pubblica — soldati e la Social Security che stacca gli assegni delle pensioni restano in funzione — ed era dal settembre del 2001, nei giorni dell’angoscia dopo l’attacco, che la capitale della nazione ancora più potente del mondo non conosceva la penombra del “brownout”, del minimalismo vitale. Ma sia 17 anni che 12 anni or sono, l’economia nazionale era ben più robusta e florida di questa esangue convalescenza dopo il crash del 2008. Soltanto a Washington, che è una città semiautonoma ancora al guinzaglio del Parlamento, il blocco costerà 200 milioni al giorno e l’effetto cascata sui consumi, il pagamento delle bollette, il turismo, la vita di chi non lavora per il governo, ma dal governo indirettamente dipende, per ogni giorno di serrata repubblicana per bloccare la legge sanitaria di Obama sarà crescente. E nessuno osa immaginare che cosa accadrà se fra 15 giorni, il 17, gli stessi ultrà del Tea Party bloccassero il tetto del debito nazionale, mandando automaticamente in default tutti i 17mila miliardi di cambiali, di Buoni del Tesoro americani, in giro per il mondo, non essendoci più soldi per pagare gli interessi.
Non ci saranno, in questi giorni, rapporti ufficiali del ministeri sul commercio, l’occupazione, l’economia, perché anche i fax, le fotocopiatrici e i server per le comunicazioni online sono stati spenti lunedì notte, secondo la procedura di chiusura. La Borsa, che non sembra troppo angosciata, ancora punta sul guizzo di buon senso pragmatico dei 535 fra deputati e senatori che formano il Congresso e, cinicamente, egoisticamente, per chi di noi non deve aspettare i bonifici federali, qualche giorno in una capitale da “Penultima Spiaggia” è stranamente delizioso.
Il cuore batte più tranquillo nel vedere i camion per la raccolta dei rifiuti circolare nei viali leggeri della capitale, perché il sindaco di Washington, Vincent Grey, ha fatto sapere che lui dello shutdown se ne frega e attingerà a fondi di emergenza, crediti, collette, vendite di tortine delle scout girl, qualunque cosa pur di tenere ambulanze, autopattuglie, pompieri e camion scopa in circolazione, anche a costo di una denuncia penale. Chiuderà invece la Nasa. La sua sede centrale, davanti al Museo dello Spazio, è tutta buia. Nessuno si è presentato al lavoro.
Tranne due persone che si sono ricordate di avere sei uomini e donne, un italiano compreso, in orbita attorno alla Terra a 370 chilometri di distanza, nella Stazione Spaziale, e sono state chiamate al centro di controllo. Oggi, primo ottobre, sarebbe il 55esimo compleanno della Nasa, ma non faranno nessuna festa, perché non c’è nessuno. Non ci sarebbero neppure i soldi per la torta e le candeline.

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