LA GRANDE BRUTTEZZA

by Sergio Segio | 1 Ottobre 2013 7:14

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«Chi scava, fruga in ciò che gli uomini hanno deciso di dimenticare per il bene di tutti», dice pubblicamente, a un tratto, in Suburra, un politico ripugnante, circondato esclusivamente da altri esseri ripugnanti. Forse per questa ragione, a Roma, lo svolazzamento icastico e vacuo sulle cose e sulle persone è una specie di sport incessante e frequentato da molti. Altrove, quando scavi, puoi incappare nell’affascinante arte del mistero. Qui, dietro il velo, ci viene detto in Suburra, puoi trovare solo una stanca meccanica, peggiorata e inutilmente grottesca, che, come tutte le meccaniche elementari, non contiene più alcune spinte vitali dell’uomo: lo stupore, la curiosità, l’inedito, il meraviglioso. Niente. La grande forza di Suburra sta nell’onestà con la quale Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini si avventurano in universi che sono diventati pura meccanica. Si sono spogliati di qualsiasi vis culturale. Finanche le sottoculture criminali che hanno alimentato la saggistica sulla Mafia appaiono, qui, svanite. La fascinazione impulsiva, incontrollabile, immorale, che si poteva provare e non dire per i contadini di Corleone che si appropriavano della città, ma che preservavano una specie di stramba moralità fatta di rituali e di silenzi, di formaggi di capra e letture della Bibbia, o l’organizzazione scientifica e avanzata di certi clan napoletani nel trattare non solo droga e prostitute, ma anche materiali più ostici e delicati, qui evapora. Si fa caricatura.
Suburra racconta una criminalità che si è spogliata del suo già modesto quadro culturale di riferimento. Una criminalità allo sbando che riflette un paese allo sbando e, infatti, il quadro di connivenza col mondo del potere ufficiale, trattandosi di Roma, si fa corposo, organico, indissolubile, al punto di finire per confondere, in termini di comportamento e di orizzonti culturali, il cardinale con il killer, il politico con lo spacciatore. Se nella forma hanno ruoli diversi, nella sostanza appaiono pedine dello stesso mondo. Svuotate non solo di ideali, ma anche di desideri.
A sostegno di questa tesi è interessante soffermarsi, in questo libro, sulle numerose descrizioni degli atti sessuali. Essi sono pura ginnastica, strascicata affermazione del sé, ma completamente privati finanche dell’istinto del desiderio. Quello che una volta era uno dei motori del mondo, oggi è diventato, semplicemente, un’occupazione come un’altra del tempo libero. In Suburra, le attività sessuali, anche quelle bizzarre, servono ai suoi protagonisti non tanto per colmare il desiderio, quanto per provare a ricordare che un tempo, in un’altra vita, sono stati uomini capaci di desiderare.
I personaggi, dunque, procedono non solo per scadenti effetti caricaturali, ma anche per scialbe imitazioni di figure che, a loro volta, già erano traballanti. Ci vuole del coraggio a raccontare tutto questo, perché vengono meno gli orpelli e gli strumenti più agevoli del romanziere. I personaggi parlano come in un dialogo scartato da Tarantino. Le formule dialettali, un tempo sistematiche partorienti di novità e calembour,
ora sono ridotte a una reiterazione elementare che stordisce. I boss con le tuniche nere e le frasi a effetto, che si rifanno a pseudo filosofie destrorse di quart’ordine, producono un risultato che travalica il ridicolo, per finire in un sentimento del lettore che confina con una spietata, indifferente compassione.
Questa è l’orrenda, scialba realtà che altri scrittori avrebbero forzato con l’abbellimento e che, invece, Bonini e De Cataldo trovano il coraggio di raccontare senza filtri, rinunciando a quella che sarebbe apparsa una bugia: la ricerca di una forma di bellezza in un universo che ha deciso di rinunciarvi da così tanto tempo che ha finito addirittura per dimenticare che nel mondo c’è anche quello. Non a caso, il perno che muove la vita dei personaggi ha a che fare con una speculazione edilizia sul litorale di Ostia dove gli uomini si muovono per sostituire la bruttezza con un’altra forma di oscenità, solo più moderna, secondo gli standard che i nostri hanno orecchiato per caso da altri colonizzatori del brutto: gli americani.
Si vuole costruire il Waterfront sul litorale laziale. Il tonitruante sbocciare del brutto e dell’inutile degli anni Ottanta sembra, in Suburra,
protrarsi ai nostri giorni senza sostanziali differenze, ma solo con un evidente invecchiamento delle dinamiche e una mera, stanca sostituzione degli status symbol. De Cataldo e Bonini sostituiscono, per esempio, le dettagliate descrizioni delle griffe di Ellis in American Psycho, con l’elenco dettagliato dei nomi balordi delle pietanze serviti nei ristoranti alla moda. La “passione di spigola” sostituisce la camicia firmata, ma il livello di idiozia e di perenne stato di ubriacatura del mondo non cambia. Solo che la sua dinamica, protraendosi per un tempo così lungo ed estenuante, fornisce un senso di logoramento, di decadenza fracassona e dilettantesca, che ha disimparato persino sentimenti elementari come la malinconia. E la cocaina perde qualsiasi funzione rituale di eccezionalità, di trasgressione, per farsi definitivamente
mezzo di sostentamento al pari del caffè e delle proteine. Infine, gli accadimenti criminali, anch’essi, sono quelli di sempre, attivi, instancabili, feroci e frenetici, ma meccanici, smossi dalla pura inerzia, in un’immobile durevolezza che forse è la connotazione più resistente e tristemente notoria di questo Paese.
Però poi, a un tratto, in mezzo ai fatti, Suburra solleva un’immagine: a Roma, in una pineta, i cani selvatici mangiano un cadavere abbandonato. Volenti o nolenti, l’immagine, quando si staglia con precisione, con lucida e ineluttabile potenza, possiede il dono della sintesi. E la sintesi è, per definizione, una semplificazione, ma anche un sollievo. Perché rivela il nucleo delle cose, oppure diffonde un sospetto. E il sospetto è che i cani selvatici siano gli uomini, e questo lo sapevamo, ma il cadavere abbandonato, probabilmente, è Roma.
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IL LIBRO E IL REGISTA
Suburra di C. Bonini e G. De Cataldo (Einaudi pagg. 488, euro 19,50) Accanto,

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