Adelphiana, cinquant’anni di scoperte

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Anche se cinquant’anni, mezzo secolo, non sono poca cosa. Del resto, prima di questo volume 2013, “Adelphiana” era già comparsa in due date che non avevano niente a che vedere con scadenze canoniche. La prima uscì nel 1971, era un almanacco, una rivista, una raccolta di testi di autori Adelphi e non. La seconda uscì nel 2002, durò quattro numeri poi finì: non era più tempo, ahimè, di riviste». 
E questa «Adelphiana» di adesso, 783 pagine folte di illustrazioni con un denso apparato di fonti, che cos’è? «Prima di tutto è un libro plurale a cui ha lavorato l’intera casa editrice, con il contributo di nostri autori e collaboratori. È il racconto di cinquant’anni di attività di una casa editrice. Non è un catalogo storico, intendiamoci, quello c’è già. È un’altra cosa. Per ogni anno abbiamo indicato alcuni titoli che ritenevamo significativi, per noi ma anche per i lettori cui erano diretti. A corredo di quei libri abbiamo cercato pagine di diari, lettere, o i passi di un saggio dove quel libro era citato. Qualche volta abbiamo anche ripubblicato delle recensioni, scegliendo quelle fulminanti. A volte abbiamo chiesto ai nostri autori e ad amici di scrivere un testo espressamente per quel libro. Testi inediti, come inediti per l’Italia sono molti altri testi di scrittori stranieri e non che qui compaiono. Il tutto arricchito da una scelta di illustrazioni di cui andiamo giustamente orgogliosi». E Calasso mostra Nabokov con il retino per la caccia alle farfalle, Sybille Bedford in vasca da bagno con la visiera, Faulkner su una sdraio in pantaloni corti su una terrazza di Los Angeles. 
Un lavoro gigantesco («abbiamo cominciato agli inizi di quest’anno»), ma che non vuol essere una celebrazione. Qual è allora lo scopo che si prefigge? «Far capire, attraverso certi titoli che abbiamo pubblicato, l’aria che tirava in Italia in quegli anni e quello che la casa editrice voleva essere e proporre. Per esempio, prendiamo il Sessantotto: da noi escono libri molto poco sessantottini. Zaratustra di Nietzsche , le riflessioni sull’arte di Kandinsky, Arte e anarchia di Edgar Wind, Alce Nero parla , Il monte analogo di Daumal : ma i ragazzi del ‘68 rispetto al Grand Jeu di Daumal e Lecomte non erano proprio niente. Poi, però, con “Adelphiana” ci siamo proposti anche un altro obiettivo, a cui teniamo molto». Quale? «Ci vogliamo rivolgere ai ragazzi che oggi hanno 18 anni per fargli conoscere libri che uscirono quando loro non c’erano. Libri che si trovano ancora, noi facciamo trecento ristampe l’anno, il catalogo è tutto disponibile, non abbiamo abolito niente, non abbiamo nascosto niente». 
Della sua vita all’Adelphi, Calasso ha parlato più volte, recentemente anche nel volume L’impronta dell’editore , rievocando le sue traduzioni (la prima fu Il racconto del Pellegrino di Ignazio di Loyola) e la sua collaborazione fino dagli inizi con la casa editrice in cui Roberto Bazlen era «consulente». Direttore editoriale nel ‘71, consigliere delegato nel ‘90, Calasso è il presidente di Adelphi dal 1999. Bazlen, racconta Calasso, era in cerca dei «libri unici», quelli irripetibili, perché all’autore «qualcosa è accaduto» che non si verificherà più e il libro ne è la testimonianza. Unici erano L’altra parte di Alfred Kubin («l’unico che Bazlen vide stampato»), Il monte analogo di Daumal, Padre e figlio di Edmund Gosse, La nube purpurea di M.P. Shiel. Bazlen muore nel 1965, quando l’Adelphi ha due anni. I primi volumi pubblicati sono Classici (Büchner, Defoe, Gottfried Keller, Carlo Dossi, Machiavelli, Stendhal), nel ‘65 cominciano le Opere complete di Nietzsche, nell’edizione diretta da Colli e Montinari. Nello stesso anno nasce la prima collana, la Biblioteca Adelphi: Kubin, Daumal, Gosse, Shiel appaiono in questa collana. «La collana è qualcosa che tiene insieme libri anche molto diversi fra loro; di certo aiuta i lettori a orientarsi nella disparità». Ma l’idea del libro unico, irripetibile, rimane. E si ritrova anche nei testi scritti per questa «Adelphiana», per esempio quando Peter Cameron, parlando de Il falco pellegrino di Glenway Westcott (2002), dice: «Quasi tutti i libri hanno l’aria di essere stati scritti (…). Eppure ci sono opere che non sembrano affatto una creazione, come se fossero sempre esistite, o come se gli dei le avessero fatte cadere dal cielo in tutta la loro compiutezza». 
Poi arriva Joseph Roth, 1974, La cripta dei Cappuccini . «Con Joseph Roth si comincia a pubblicare tutti i libri di un autore. La totalità diventa così il libro unico, irripetibile. Il caso più clamoroso sarà quello di Simenon: più di 100 titoli in catalogo, due milioni di copie vendute equamente divise tra Maigret e i romanzi senza Maigret, e ancora ce ne sono parecchi da fare». E con Roth comincia il successo. «I grandi numeri per l’Adelphi arrivano fra il 1975 e il 1985. Anche se nel 1979 il Pessoa curato da Antonio Tabucchi passa inosservato: una sola recensione, di Pontiggia, che però era un nostro collaboratore. Se ne accorsero solo le Br, con un articolo su “Controinformazione” che usava Pessoa come prova dell’orientamento reazionario dell’Adelphi. Ecco, “Adelphiana” vuole anche far riflettere sul tempo dei libri, il momento in cui escono, se trovano subito accoglienza o no. Il loro habitat, insomma. Vuole far riflettere anche su certe sfasature temporali, a volte è vero noi anticipavamo un po’ troppo…». Del rischio di uscire avanti tempo Calasso scrive nel testo di «Adelphiana» dedicato a Gli imperdonabili di Cristina Campo (1987), rammentando le traduzioni della Campo nei primi anni 50 per la collana «La Cederna»: «Rilke, Hoffmansthal, Benn, George (…) quegli autori apparvero troppo presto in un paese che stava faticosamente tentando di ricordarsi cos’è la letteratura». 
Se c’è chi anticipa troppo, c’è anche chi arriva molto in ritardo. «Pochi giorni fa in America è uscito il nuovo libro di Jonathan Franzen. S’intitola Project Kraus . Franzen scopre Karl Kraus, un autore, dice, amico di Kafka, eppure ancora unfamiliar per il pubblico americano. Noi all’Adelphi abbiamo pubblicato Detti e contraddetti nel 1972, quarant’anni fa. Poco dopo avremmo pubblicato il saggio su Nestroy e poi Gli ultimi giorni dell’umanità . Kraus stava dentro la costellazione mitteleuropea, che noi facemmo conoscere negli anni 70. Ma fuori d’Italia non è stato così». 
Lei usa la parola costellazione. «Sì, “Adelphiana” si può definire come il libro delle costellazioni sovrapposte. Prima e dopo la costellazione mitteleuropea ce ne sono state altre. Filoni che non si esauriscono nel loro emergere. Per esempio l’interesse per l’Oriente c’era già fino dagli inizi, con Granet, Corbin; così la poesia, Brodkskij, Milosz e poi sarebbe venuta la Szymborska». Tutto questo implica due cose: un editore che sceglie i libri; un pubblico che li recepisce. Nel 1988, nel risvolto di copertina del libro di Siegfried Unseld, L’autore e il suo editore (Unseld è stato il grande direttore della la casa editrice Suhrkamp dal 1959 all’anno della morte, 2002) Calasso scriveva: «E così finalmente il comune lettore intelligente si potrà fare un’idea di che cosa significhi, in concreto, quell’attività molto favoleggiata ma poco conosciuta che è l’editoria». Prima domanda: chi è il comune lettore intelligente? «Noi, il nostro pubblico non sappiamo chi sia. Però sappiamo che c’è, e che è fedele, come provano i numeri. È un lettore flessibile, che ha vari interessi. Per questo, contrariamente a quello che si sente dire in giro, io parlo sempre a favore del lettore italiano. In America la produzione libraria è divisa rigidamente per generi, in compartimenti stagni. Al lettore americano che s’interessa di biografie di personaggi attuali non importa niente sapere qualcosa dell’Egitto di tremila anni fa. Potenzialmente il comune lettore intelligente è uno che si interessa a qualcuno dei 2000 e passa volumi che abbiamo fatti. Ma noti bene che noi abbiamo fatto questi libri perché li trovavamo buoni. Siamo egoisti. Non sapevamo se anche qualcun altro li avrebbe trovati buoni. Ma i numeri, dicevo, ce ne hanno dato conferma. Il lettore italiano di una certa qualità, insomma, non si muove secondo schemi e generi fissi: per esempio, i Moralia di Plutarco e il racconto di Schnitzler, usciti insieme nel 1983, hanno venduto le stesse copie». 
E l’editore? «Editore, editoria sono parole che fanno sognare. Ma poco si sa di come realmente avvengono le cose. È una figura, l’editore, avvolta nel mistero. Si immaginano traffici oscuri. Non si sa cosa succede giorno per giorno in una casa editrice. Data (o nonostante) la sua scarsa rilevanza economica, l’editoria fa sognare. L’editore assomiglia a un demiurgo. C’è qui un resto, uno straccio di numinoso, anche se spesso fondato sull’equivoco». 
È un lavoro in cui c’è del divertimento? E se sì, qual è? «Per Peter Suhrkamp fare l’editore consisteva nel dare forma: “Tra il momento in cui mi trovo in mano un manoscritto e quello in cui il libro è fatto c’è un processo in parte visibile in parte invisibile”. Un concetto che cozza con la tendenza attuale, che è l’odio per la mediazione vista come il male in sé, ciò che imbroglia, che stravolge la verità dell’esperienza immediata. È questa la filosofia della rete, dove tutto passa senza mediazione. Ecco, la grande editoria è stata l’opposto; se non c’è mediazione — scelta del testo, lavoro sul testo fino all’impaginato, il titolo, la copertina — è un mestiere brutale, di scarso interesse». 
Oggi si parla molto di self publishing. «Il self publishing vive di questo abbaglio dell’immediatezza: io metto in rete il mio libro, e tutti lo vedono… Sì ma poi c’è il fatto che perché il libro sia ben visibile ci vogliono le recensioni, e le recensioni sono tutte artificiali». 
Si dice che l’editore condiziona, è un pedagogo. «È un fenomeno molto italiano, legato a fatti politici. Qui c’è stato Giulio Einaudi, al livello più alto, fino all’inizio degli anni 70. Gli anni 50 dell’Einaudi sono esemplari. Non accadeva niente di simile fuori d’Italia. Gallimard è sempre stato eclettico. Suhrkamp era l’editore contemporaneamente di Hesse e di Brecht. Poi ha lanciato la Scuola di Francoforte, ma senza nessun intento pedagogico. Comunque l’editore-pedagogo appartiene a tempi passati. Oggi non c’è niente di simile. Forse non c’è nemmeno più l’editore. In questi 50 anni in Italia siamo passati dall’egemonia alla molteplicità. Non c’è più una struttura portante, solo cose occasionali, buone o cattive, che escono da qualsiasi editore. C’è una assoluta invertebratezza del tutto, non si vede bene il profilo: un tempo c’era, anche troppo. Però, si badi, questo non è un argomento limitato alla deprecazione italiana. È un fenomeno mondiale. Per esempio, in Germania: Suhrkamp è in grande crisi per via della rissa interna; da Hanser, Michael Krüger lascia; tra il libri di Fischer e Rowohlt è difficile trovare la differenza. E negli Stati Uniti, il nome dell’editore è quasi nascosto, invisibile sulle copertine». 
Ci sono libri che tornando indietro non rifareste? «Ci sono stati libri non di stretta necessità, ma nessuno per cui ci sono ragioni sufficienti per non rifarlo». Anche Léon Bloy, quello di Dagli ebrei la salvezza , e René Guénon? «Sì, Bloy vorrei andare avanti, il suo diario è una delle cose più belle della letteratura francese. Quanto a Guénon, senza di lui il Novecento rischia di apparire monco. Se uno cerca il pensiero “antimoderno”, con Guénon ha la versione più dura, non addomesticata. In Germania non lo pubblicano, hanno paura. Da noi tutti i suoi libri si continuano a vendere e a ristampare. Anche se nessuno di questi libri è mai stato recensito». 
Recidivi, insomma. «Sì, assolutamente. Abbiamo avuto attacchi da ogni parte. Prima perché eravamo peccatori elitisti; poi — anni 80, dopo il successo di Roth e di Kundera — perché eravamo diventati commerciali. Le Br ci indicavano come la centrale della reazione; certi ambienti cattolici ci condannavano come gnostici, nonostante Simone Weil, Meister Eckhart, Ignazio di Loyola, padre Pozzi. Anche da parte liberale piovevano critiche. Ma alla fine tutti questi attacchi durati cinquant’anni hanno finito per annullarsi reciprocamente». 
Ora questi cinquant’anni sono diventati un libro, quasi un romanzo con date e con figure. «Un romanzo comunque che permette di entrare e uscire da dove uno vuole, e in cui ogni anno è una porta». 


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