Quel germoglio che doveva sovvertire la realtà
Protagonista centrale della Primavera di Praga, ha analizzato la «pseudoconcretezza» della globalizzazione Se fossi un filosofo ventenne che prende in mano Dialettica del concreto di un ignoto Karel Kosík potrei scambiarlo per un pensatore radicalmente critico dell’attuale fase di dittatura del mercato. Lapidario: «Nell’economia capitalistica, si verifica il reciproco scambio di persone e cose, la personalizzazione delle cose e la cosificazione delle persone». Dialettica del concreto ha invece cinquant’anni (1963, in italiano 1965), ma non li dimostra. L’autore è nato a Praga nel 1926 e nella città d’oro è morto dieci anni fa, ha avuto l’opportunità di impastare pensiero e realtà commisurandosi severamente con lo spirito del tempo della sua vita: si è opposto giovanissimo al nazismo, finendo nel campo di concentramento di Terezín, anticamera di Auschwitz e dolente officina di musiche, ha contrastato creativamente il socialismo stalinista, subendone la dura repressione, ed infine, dopo il 1989, si è sottratto all’infatuazione collettiva per le virtù neoliberiste, venendo un’altra volta isolato da coloro che invece le hanno idolatrate.
Come uno Sveik filosofo non è mai stato al gioco che veniva imposto dai poteri e dagli apparati culturali, come un Kafka sorridente il cui «sorriso enigmatico non è doloroso, tantomeno lamentoso, ma sa cos’è il dolore».
Nella bella e importante raccolta di scritti: Karel Kosík. Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia. Saggi di pensiero critico 1964-2000 (a cura di Gabriella Fusi e Francesco Tava, Mimesis, pp. 278, euro 24) una decina di splendide pagine sono dedicate a Gregor Samsa – in realtà a Grete, la sorella – l’uomo che cambia aspetto nella Metamorfosi kafkiana, e qui, inevitabile, compare Milena Jesenská, l’amica di Kafka: «Il suo destino consiste nel fatto che, in quella situazione senza uscita che fu il breve periodo dall’autunno del 1938 all’autunno del 1939, lei si è opposta contemporaneamente a tutte le tre forme del male allora presenti: sia al male del nazismo tedesco, sia al male del bolscevismo russo, sia al male della viltà europea di Monaco». Milena che nel campo di concentramento di Ravensbrück non stava mai in fila, fuoriusciva dall’ordine imposto, come ci racconta Margarete Buber Neumann. Kosík la sentiva come sorella di destino, lui che aveva contribuito a riconoscere l’importanza di Kafka, che i beccamorti del regime consideravano un piccolo borghese decadente.La manipolazione del potere
Kosík era stato un protagonista della Primavera di Praga, che nella memoria e nella narrazione mediatica è ricordata solo nel suo inverno: i carri armati sovietici che cigolano in piazza Venceslao. Una primavera ancora tutta da vivere, non solo a Praga. «La Primavera di Praga a suo tempo dovette essere soffocata, oggi deve essere minimizzata o lasciata cadere nel dimenticatoio: recava in se l’embrione di una alternativa storica». Un marxismo sfigurato che per le vie della città appariva invincibile nei volti prima attoniti poi brutali dei soldati sovietici che spuntavano dalle torrette dei T65 e che in realtà annunciavano il suicido differito di quel socialismo manipolatorio e burocratico. «Se l’esperimento cecoslovacco dovesse riuscire – scriveva nel 1968 Kosík – noi ci troveremmo di fronte alla prova pratica che il sistema della manipolazione generale può essere superato, e in ambedue le forme storiche oggi dominanti: tanto in quella dello stalinismo burocratico quanto in quella del capitalismo democratico».Embrione di una alternativa
La costruzione dell’embrione di una alternativa storica è il compito che Kosík assegna alla filosofia e al suo marxismo rivoluzionario e umanistico: «La filosofia è la festosa iniziazione ai segreti della realtà: perciò è, al tempo stesso, critica della mera apparenza, è distruzione della pseudoconcretezza» che come un chiaroscuro di verità e di inganno plasma le nostre vite, una pseudoconcretezza onnipervasiva in cui siamo risucchiati, che assorbe tutte le nostre energie, smarriti in una prassi di «cura» che ci impedisce di vederne il carattere derivato, sociale, non fisso. «La cura è la mera attività dell’individuo sociale isolato» che non riesce, accecato dalla pseudoconcretezza, a vedere le cose come prodotti sociali, che siano l’automobile, lo Stato, lo spread o il mercato.
In ceco, ricorda Kosík, la parola mercato risulta dalla combinazione di tre lettere magiche Trh, a cui tutti prestano una amabile attenzione, decantandone i vantaggi che apporterebbe ai ricchi e ai poveri. «La caratteristica del tempo in cui viviamo non è il mercato, bensì la globalizzazione capitalistica, il dominio planetario del supercapitale. Chi confonde il mercato con il capitalismo nega l’esistenza del supercapitalismo come potenza planetaria. Per esso il mercato è soltanto uno strumento subordinato al proprio funzionamento». C’è una lumpenborghesia che governa il mondo, il latifondo planetario, reclutata fra i nuovi ricchi e che «unisce l’imprenditorialità con la mafiosità, la truffaldinità con la criminalità organizzata. La lumpenborghesia è un’enclave combattiva, apertamente antidemocratica all’interno di una democrazia funzionante, ma imperfetta e irresoluta». La distruzione della pseudoconcretezza, dell’apparenza del reale, resta l’incompiuto dovere della filosofia. Questo il tono delle meditazioni antidiluviane che Kosík venne pubblicando a metà degli anni Novanta, con il dichiarato intento di combattere il diluvio della voracità senza limiti inneggiata da Gordon Gekko nel film «Wall Street» del 1987. Il film del nostro presente, che attende la sua Primavera: «Ciò che libera, germoglia e matura lentamente, sullo sfondo, e all’inizio si manifesta come esiguità risibile. Ma la storia ci fornisce esempi di inizi in-significanti dai quali sono derivati grandi avvenimenti. Per quanto possa sembrare esiguo, importante è l’inizio».
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