La comunità dell’impresa

by Sergio Segio | 31 Ottobre 2013 10:42

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Siamo uno strano paese, che butta via i bambini e conserva gelosamente l’acqua sporca. I bambini erano le straordinarie opportunità che si aprirono al nostro paese fra gli anni ’50 e ’60. Olivetti, Mattei, lo straordinario livello della nostra ricerca scientifica e tecnologica. L’acqua sporca è una classe dirigente politica ed economica che ha sempre messo al primo posto il controllo rispetto allo sviluppo, e che ha sacrificato le possibilità che si aprivano al mantenimento delle proprie certezze e del proprio potere consolidato, piccolo o grande che fosse. Anche a sinistra. Per dirla con Castells abbiamo sistematicamente sacrificato il potere delle tecnologie alle tecnologie del potere.
Il “bambino” di Adriano che può parlare ancora al presente è l’idea di un capitalismo che va nel mondo restando saldamente ancorato al proprio territorio, la cui vivibilità, coesione sociale, crescita civile e culturale diventa esso stesso uno dei fini dell’impresa. Lancerà la “Lettera 22”, il prodotto simbolo del farsi multinazionale della Olivetti, con lo slogan «Questa macchina viene da Agliè», proiettando nel futuro la storia di quel piccolo paese, in cui c’era il vecchio cotonificio dismesso, trasformato nella fabbrica della “Lettera 22”. E il fine della impresa, sul che cosa e per chi produrre, nel mercato e oltre il mercato, sarà un interrogativo costante della sua vita. Che gli permetterà di pensare ad uno sviluppo a più dimensioni, oltre la pura dimensione economica. La Olivetti e la rivista Comunità, che è parte integrante del suo stesso progetto industriale, è un crogiuolo multidisciplinare, in cui economisti, sociologi, urbanisti, filosofi e poeti lavorano insieme a costruire nel presente un’idea di futuro. E in cui trova modo di esprimersi persino la critica più radicale al modo di produzione fordista che Olivetti, con la Fiat di Valletta, introdusse in Italia. Sono proprio due “olivettiani” come Volponi con il “Memoriale” e Ottieri con “Donnarumma all’assalto” a darci i più potenti romanzi di fabbrica di quegli anni, e a rivelarci la persistenza insanabile dell’alienazione operaia dentro quel modo di produzione, anche quando accompagnato ed accudito come alla Olivetti dai medici di fabbrica, dagli assistenti sociali e dagli psicologi.
E’ questa la contraddizione irriducibile in cui Olivetti vive. Ma in cui viveva allora lo stesso movimento operaio, che continuava a vedere nelle sue componenti maggioritarie, il fordismo come il modo più razionale di gestire il lavoro e di produrre ricchezza, da redistribuire o, nelle sue componenti più rivoluzionarie da espropriare, rendendo collettiva la proprietà di quello che è già collettivo a livello di produzione. E in cui viviamo ancora quando scopriamo la miseria e la brutalità di un fordismo senza welfare, senza consumi e senza conoscenza là dove le mani delle operaie e degli operai danno forma e materia agli oggetti del nostro consumo “personalizzato” e ai supporti materiali della nostra potenza cognitiva..
In quella Comunità di saperi e di esperienze diverse si cercavano i nuovi misuratori dello sviluppo oltre la pura e semplice crescita economica. I livelli di istruzione e gli interessi culturali della popolazione, la bellezza dei manufatti e del paesaggio, la partecipazione democratica dei cittadini. Mettendo in discussione la tirannia del Pil, in cui siamo ancora immersi.
E con qualche contraddizione anche allora non solo con la Confindustria dell’epoca, ma anche con una sinistra oscillante fra lo storicismo idealista e l’economicismo più duro. Che confluivano in un’idea di partito come “capostazione” dello sviluppo e degli stessi conflitti generati dallo sviluppo, e che reagì con una certa brutalità alla messa in discussione olivettiana del primato dei partiti, e all’idea di una società in cui il potere si decentrava verso le comunità territoriali, e la democrazia diretta si affiancava, fino a sostituirla gradualmente, alla democrazia rappresentativa.
Una cosa molto diversa dall’attuale critica ai partiti. Intanto perché allora i partiti c’erano, strutturati e presenti nel territorio, e metterli in discussione richiedeva una qualche radicalità in più. E soprattutto perché la sua idea di democrazia diretta aveva come principio e fine la coesione sociale dei territori, l’opposto insomma dei referendum telematici proposti ad una platea di individui separati e massificati.
Colui le cui intuizioni renderanno possibili la rete come connessione di individui lontani, nella cui fabbrica e nei cui laboratori prese avvio l’era del personal computer, pensava una democrazia diretta come saldamente ancorata al territorio, alle sue piazze e alle sue strade, ai luoghi fisici del sapere, del lavorare e del vivere.
C’era piuttosto il riproporsi di un’idea lontana, perdente rispetto alla tradizione vittoriosa del movimento operaio, quella dello statalismo leninista o socialdemocratico, l’idea del mutualismo e dell’autogestione, recuperata attraverso l’antigiacobinismo radicale di Simon Weill. E la ricerca sociologica militante, attenta alla “parola degli operai” più che alle istituzioni del movimento, e che coglieva già allora, fondamentale fu il contributo in questo senso di Franco Ferrarotti, il progressivo distaccarsi della rappresentatività dei partiti e dei sindacati dalla rappresentanza effettiva dei bisogni e dei desideri dei lavoratori in carne ed ossa.
E’ indubbio che Adriano Olivetti avrebbe tratto dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ulteriori impulsi verso la possibilità di una democrazia diretta su vasta scala, ma è indubbio che la sua rete avrebbe continuato ad essere rete di comunità organizzate e saldamente piantate nei territori, e la sua piazza virtuale non sarebbe mai stata pensata come sostitutiva della piazza reale, quella in cui gli uomini camminano, guardano, si incontrano. Perché era ostinatamente “glocale” anche quando la parola non era stata ancora inventata.

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