Dall’energia pulita al ritorno nei campi il lavoro di domani è sempre più verde

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MENTRE l’Istat avverte che in Italia ci sono ormai più di tre milioni di disoccupati e poco meno di tre milioni di “inattivi”, cioè di persone che non cercano più neppure un lavoro perché pensano di non trovarlo, con una singolare coincidenza di cifre la Green economy offre la prospettiva di un’immediata compensazione. Sono già oggi 3 milioni 56 mila gli occupati nell’economia verde, pubblica e privata, a cui si possono aggiungere altri 3 milioni 700 mila “attivabili” nelle filiere che la compongono. E già quest’anno oltre il 61% delle assunzioni programmate nei settori ricerca e sviluppo sarà coperto da green jobs.
C’è un altro futuro possibile, dunque, nel Rapporto GreenItaly 2013 che verrà presentato a Milano lunedì prossimo, 4 novembre, da Unioncamere e da Symbola, la Fondazione per la qualità italiana presieduta da Ermete Realacci. È un modello di sviluppo economico e sociale imperniato su un paradigma produttivo che fa leva sulla creatività, sull’intelligenza e sulla bellezza, premiando chi investe su conoscenze, nuove tecnologie, capitale umano, innovazione. Ma può essere anche una risposta alla crescente domanda
globale di valori e di equità innescata dalla crisi, alla ricerca di una nuova sobrietà contro il consumismo senza limiti e la finanza senza regole.
Questo processo, secondo il Rapporto, è già in atto nel nostro Paese. Dal 2008 a oggi, senza contare l’agricoltura, 328 mila aziende italiane dell’industria e dei servizi con almeno un dipendente hanno investito, o lo faranno entro quest’anno, in nuove tecnologie per risparmiare energia e ridurre l’impatto ambientale: vale a dire il 22% delle imprese nazionali. Ed è proprio da queste aziende virtuose che proviene nel 2013 il 38% di tutte le assunzioni previste complessivamente nell’industria e nei servizi: 216.500 su un totale di 563.400.
Dall’inizio della crisi, insomma, un’impresa su cinque ha scommesso sulla Green economy, nonostante le difficoltà di bilancio e la necessità di ridurre i costi. Ne ha tratto beneficio innanzitutto l’export: il 42% delle aziende manifatturiere che hanno fatto eco-investimenti esporta i propri prodotti, contro il 25,4% di quelle che non lo fanno. E così il 30,4% delle imprese manifatturiere che investono in sostenibilità ha introdotto innovazioni di prodotto o di servizi, contro il 16,8% di quelle non investitrici. Tutto ciò si traduce, alla fine, in una maggiore redditività: il 21,1% delle aziende più “verdi” ha registrato nel 2012 una crescita del fatturato, mentre questa percentuale è stata più bassa fra tutte le altre (15,2%).
Un “nuovo made in Italy” emerge dall’elenco dei settori che puntano sulla riconversione ecologica, quelli più tradizionali e quelli di più recente acquisizione. In testa, troviamo il comparto alimentare (27,7% contro una media del 22% nel complesso dell’industria e dei servizi); seguito dal legno-mobile (30,6%); dal settore della fabbricazione delle macchine, attrezzature e mezzi di trasporto (30,2%); e poi, tessile, abbigliamento, calzature e pelli (23%).
Spicca, in questo scenario, il caso dell’agricoltura. Quella italiana è una delle più competitive a livello europeo con diversi primati produttivi, a cominciare dal valore aggiunto per ettaro: 2.181 euro, il triplo del Regno Unito, il doppio della Spagna, quasi il doppio della Francia, una volta e mezzo della Germania. L’Italia detiene anche il record del numero di occupati: 10,1 in media per ogni cento ettari, il triplo di Francia, Germania e Spagna; quasi sei volte rispetto al Regno Unito. Ma è soprattutto sulla sicurezza alimentare che la nostra agricoltura può vantare il pregio della qualità, avendo il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici oltre il limite stabilito (0,3%), inferiori di cinque volte rispetto a quelli della media europea (1,5% di irregolarità) e di quasi 26 volte rispetto a quelli extracomunitari (7,9%).
«La fotografia che risulta dal Rapporto — commenta Ermete Realacci — non è quella di un Paese smarrito, a corto di fiato e di competitività». Poi aggiunge: «Non ha senso oggi continuare a leggere le nostre performance con le dinamiche delle quote di mercato nell’export mondiale, come se nel frattempo l’economia globale non fosse stata terremotata dall’ingresso in campo di colossi come la Cina, l’India e il Brasile». A supporto della sua tesi, il presidente di Symbola cita il dato che nel 2012 l’Italia è stata tra i soli cinque Paesi al mondo — insieme a Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud — a registrare un saldo commerciale con l’estero superiore ai 100 miliardi di dollari per i manufatti non alimentari. E il presidente di Unioncamere, Ferruccio Dardanello, conclude in tono fiducioso: «Negli ultimi quattro anni, mentre sul mercato domestico la domanda e la produzione crollavano per la crisi e l’austerità, il fatturato estero dell’industria italiana è cresciuto più di quello tedesco e francese: questo è il nostro spread positivo».


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