by Sergio Segio | 27 Ottobre 2013 8:03
ROMA — Una decina d’anni fa il deputato dell’Udc Michele Vietti era un insofferente sottosegretario alla Giustizia del governo Berlusconi, che viveva con disagio la sequela di leggi ad personam sfornate per bloccare i primi processi al premier. Poi l’evoluzione delle alleanze politiche ha portato il suo partito altrove e oggi, da vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Vietti si muove in prima fila a sostegno dell’autonomia e indipendenza delle toghe. Lo fa anche dalla tribuna del congresso dell’Associazione nazionale magistrati, quando invita la politica ad «abbandonare atteggiamenti vittimistici e fare il proprio mestiere», cioè leggi che correggano le storture del sistema. Smettendola di aggredire giudici e pubblici ministeri che, dice, fanno semplicemente il loro dovere: «Presidiare la legalità, distribuire torti e ragioni, applicare leggi e regole. Questo è il mestiere della magistratura, non altro».
Certo, aggiunge il vice di Napolitano al vertice del Csm, c’è pure «chi interpreta il proprio ruolo in maniera opinabile, avviene in politica e può accadere tra i magistrati, ma si tratta di eccezioni». Come dire che il corpo è sano, sebbene Vietti si senta in dovere di ricordare all’assemblea dei giudici che «le invasioni di campo portano con sé il rischio di una generalizzata delegittimazione dell’ordine giudiziario, in un vero e proprio corto circuito istituzionale». Di qui l’appello a «evitare la tentazione di sostituirsi alla legge, padrone assente», e «sottrarsi alla logica del conflitto» per tornare a «un equilibrio smarrito da tempo»; nonché l’auspicio che il ministro della Giustizia (carica per la quale era circolato anche il nome di Vietti, prima che venisse scelta Annamaria Cancellieri) «passi dalle parole ai fatti sul fronte dell’organizzazione degli uffici, dell’informatizzazione, delle risorse da mettere a disposizione».
Il doppio richiamo alla politica e ai giudici — basta con aggressioni e riforme punitive, e attenzione agli sconfinamenti — sembra il filo conduttore di un congresso nel quale i magistrati italiani vorrebbero guardare avanti, ma sono costretti a fare i conti con un presente tuttora ancorato ai contrasti dell’ultimo ventennio. Inesorabilmente legati alle vicende giudiziarie di Berlusconi. Lo ricorda Anna Finocchiaro, autorevole esponente del Pd e presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, quando afferma che «Silvio Berlusconi è la ragione essenziale per cui nei progetti di riforma costituzionale non è stata inserita anche la revisione dell’assetto della magistratura». E insiste: «Su ogni aspetto, dall’amnistia alla prescrizione, la discussione si blocca sul nascere per il timore che possa essere strumentalizzata a suo favore o sfavore; ogni ragionamento è impedito perché rischia di riaprire un conflitto irricucibile».
Alla Finocchiaro replica il capogruppo del Pdl al Senato Renato Schifani, ospite del congresso mentre è impegnato in un conflitto interno al proprio partito che pure ha a che fare con le grane giudiziarie del suo leader, il quale tenta di rovesciare sul centrosinistra la responsabilità dell’immobilismo, per via dell’ossessione berlusconiana. E sottolinea che sulla questione della decadenza da parlamentare del leader condannato ci si è mossi secondo logiche di partito anziché giuridiche.
I magistrati ascoltano un po’ interdetti l’ennesimo dibattito in cui la politica gira sempre intorno allo stesso argomento, che inevitabilmente incide anche sui loro interventi. Il segretario dell’Anm Maurizio Carbone non nomina Berlusconi, ma parla di lui quando sottolinea che l’incandidabilità di un condannato a una pena superiore a tre anni di carcere «è un principio di etica al quale i partiti potevano aderire con regole fissate da un proprio codice interno»; invece c’è voluta una legge, «e al di là dei profili di applicabilità al caso concreto che non ci interessano, ciò dimostra la debolezza della politica». Anche Anna Canepa, segretaria di Magistratura democratica, parla di Berlusconi senza citarlo; le basta rivendicare la storia della corrente di sinistra dei giudici, e stigmatizzare gli «attacchi ignobili» rovesciati sul suo gruppo dal leader di Forza Italia.
Giovanni Bianconi
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