Tortura, primo sì. Ma senza la convenzione Onu

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Il primo passo per l’introduzione del reato di tortura anche nell’ordinamento italiano finalmente è stato compiuto. Ieri la commissione Giustizia del Senato ha licenziato definitivamente il nuovo testo di legge messo a punto dal relatore Nino D’Ascola (Pdl), anche se nessuno sa dire ora quanto tempo rimarrà nel cassetto prima che l’Aula si decida a calendarizzarne la discussione. Ma la configurazione del reato, nel ddl che ha trovato la quadra in commissione, non corrisponde affatto alla definizione della Convenzione Onu sulla tortura – che parla di reato specifico compiuto da pubblico ufficiale, e non generico, ossia commesso da chiunque – il cui Protocollo è stato ratificato dall’Italia poco più di un anno fa. Proprio per questo il senatore Pd Luigi Manconi si dice «per nulla soddisfatto»: «Che fosse reato proprio, cioè commesso da chi esercita pubblico servizio, era davvero irrinunciabile perché – spiega Manconi – si tratta appunto di definire la tutela di coloro che si trovano in uno stato di privazione della libertà, anche per decisione legittima».
Eppure, se fosse stato già legge, il testo che ieri ha ottenuto anche il via libera dalla commissione Bilancio (pur se amputato del fondo a sostegno delle vittime), i poliziotti condannati per le violenze nella caserma Diaz, a Genova nel 2001, avrebbero rischiato fino a 18 anni di carcere. Il ddl emendato infatti prevede il carcere da tre a dieci anni per chiunque «cagiona acute sofferenze fisiche o psichiche» ad una «persona privata della libertà» o «affidata alla sua custodia o autorità o potestà o cura o assistenza»; se a torturare è un pubblico ufficiale la reclusione va da quattro a dodici anni. E se si causano lesioni personali, la pena aumenta: di un terzo se sono «gravi», della metà se «gravissime». L’ergastolo in caso di morte volontaria. Il terzo dei sette articoli che compongono la legge vieta «il respingimento, l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato nel quale esistano seri motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura».



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