«La letteratura è un impegno vitale ma i libri sono oggetti deperibili»

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L’intervista a Giuliano Gramigna, che qui pubblichiamo, è stata raccolta nel 1995 ed è rimasta fino a oggi inedita.
Che cosa ha significato per la vostra generazione di ventenni e trentenni fare letteratura al tempo del fascismo?
«C’era uno scambio di opinioni e di relazioni letterarie tra coetanei o quasi coetanei. Io facevo parte di un giornaletto universitario bolognese, “Architrave”, un mensile del Guf diretto da Francesco Arcangeli, di orientamento ermetico. La contraddizione stupenda e straordinaria era che quella letteratura, che era intrinsecamente e non per propaganda la negazione del fascismo, utilizzava i mezzi fascisti perché non eravamo in grado di partecipare alla vita clandestina o paraclandestina. Nella forma più semplificata e meno rigorosa, ci mettevamo qualcosa della solidarietà politica e delle nuove istanze letterarie».
Si può dire che eravate in qualche modo degli oppositori ingenui?
«Sono sempre un po’ imbarazzato, quando sento molti letterati della mia generazione rivendicare le proprie prese di distanza dal fascismo, come fossero stati subito lucidamente consci dell’orrore e dell’errore, e come se avessero camminato in quella valle nell’ombra ma già presaghi di ciò che sarebbe successo. La verità è che la mia generazione, con eccezioni che io rispetto e alle quali faccio tanto di cappello, ha una colpa, bisogna riconoscerlo: è arrivata fino al ’38 credendo ancora nel fascismo in cui si era formata».
È un’ammissione di inadeguatezza?
«È un doloroso atto di contrizione, una ammissione di debolezza, di ignoranza, di incapacità di realizzarsi e di svincolarsi. Fra il ’37 e il ’38 cominciarono delle opposizioni puramente verbali o teoretiche, ma interne al fascismo, come se noi volessimo salvare ancora ciò che si poteva salvare in quel guscio che era già marcio e a cui noi sentivamo di avere contribuito se non altro con l’ignoranza e con l’accettazione, che non sono certo piccole responsabilità. I nostri erano ridicoli e patetici tentativi di cambiare il fascismo dall’interno… Ci mancava una coscienza politica: mentre noi camminavamo non dico ballando sul vulcano ma un po’ tastando alla cieca, pietosamente e ridicolmente, altri avevano già fatto le loro scelte da tempo e avevano pagato per conto loro. È un ritratto sconfortante che costa ancora fare, ma per un minimo di onestà mi sembra giusto».
La stagione ermetica è stata davvero una solidarietà irripetibile?
«Avevo tra i sedici e i vent’anni, un’età in cui si è straordinariamente capaci di assorbimento. La frenesia aveva la meglio sulla selettività. Avevamo bisogno di ingerire quanto più possibile, e gli entusiasmi andavano forse a scapito di una visione più chiara e articolata, ma la poesia ci colpì come il segno della letteratura nuova. Leggendo Avvento notturno di Mario Luzi, nel ’40, sentivamo un’attrazione estetica o emotiva, ma soprattutto una solidarietà passionale nei confronti di una letteratura che ci sembrava finalmente porre le domande essenziali che accomunavano un’intera generazione, direi un io generazionale di cui ero partecipe: poche volte nella vita ho sentito quel senso di appartenenza e di identificazione culturale».
Quali rinunce e contraddizioni ha comportato il fatto di essere insieme giornalista, critico, narratore e poeta?
«Credevo che non nuocesse allo scrittore essere giornalista e al giornalista pensarsi scrittore: pensavo che le due attività potessero convivere. Avrei scoperto invece che si nuocciono, al punto da essere in-com-pa-ti-bi-li: fare il giornalista significa non dico rinnegare ma abbandonare, almeno provvisoriamente, le cose fondamentali della scrittura letteraria. Viceversa, la letteratura impone doveri, rigori e crudeltà verso la materia che non si possono trasferire al giornalismo, pena fare del cattivo giornalismo. Senza aggiungere poi che la retorica letteraria quando si mescola al giornalismo produce il peggio, i fiori più detestabili e standardizzati. Per me la sfida è stata riuscire a salvare il lavoro creativo facendo un mestiere-tritacarne».
Pentito di aver fatto il giornalista?
«Mio padre era impaginatore capo del Corriere dal 1922, e io ho vissuto con la familiarità per i giornali: era il lavoro paterno e mi interessava… Poi ho capito che fare il giornalista significa dimettere il proprio essere scrittore. Perché lo scrittore ha a che fare con i dubbi e le incertezze, il giornalista con la chiarezza e la precisione; lo scrittore è in preda al dubbio fondamentale del soggetto, e questa non può essere la premessa del giornalismo».
Qual è il compito del recensore?
«Recensire comporta un impegno molto serio con il lettore: rendergli un servizio, con la descrizione del testo, e creare la possibilità di un giudizio, impegnando la propria credibilità e diciamo pure il proprio onore anche avendo il coraggio di scommettere su autori nuovi. Nel mio piccolo ho questa soddisfazione: di aver individuato scrittori che non esistevano prima — non che li abbia creati io, ma mi accorgevo subito che erano veri… Oggi vedo che molti recensori si sentono in obbligo di creare invece la recensione sensazionale…».
È cambiata la figura dello scrittore?
«Non mi sembrano molti quelli che credono nella scrittura come in qualcosa in cui si mette a repentaglio se stessi. Purtroppo i critici e i paracritici, e persino gli editori, finiscono per riconoscere che il libro è un oggetto deperibile, destinato a far posto ad altri libri altrettanto deperibili. Dunque si tratta di trovare il caso che faccia discutere e questo mette al muro gli autori. Lo scrittore non dovrebbe esistere se non incidentalmente come un nome sulla copertina, mentre dovrebbe esistere solo la sua scrittura. Adesso invece diventa più importante che l’autore sia qualcuno. E come è possibile che un autore, che nella scrittura mette sofferenza noia disgusto fatica di anni nello scrivere un libro, non cerchi in ogni modo che il suo libro abbia un’udienza e sia accettato? Non possiamo chiedergli di essere un eroe o un asceta. Il rischio è il silenzio e la totale assenza, e il non esistere è uno scotto durissimo per uno scrittore».
La letteratura implica necessariamente una fede totale?
«La mia risposta è sì. La scrittura è una fatica disperata, distruttiva: non si può avere un’idea debole della letteratura e scrivere seriamente. Sarebbe come mettere a rischio la propria vita per motivi fatui. Solo se l’impegno letterario è un impegno vitale — anzi, direi quasi mortale — vale la pena: è la fiducia in un atto essenziale, che può infischiarsene del successo. Certo, considerare secondario il successo può diventare il rifugio di tutti i falliti e gli incapaci, me ne rendo conto. Però d’altra parte bisogna anche correre il rischio di essere incapaci e falliti. La scrittura si gioca su un criterio assoluto, non nei risultati ma in partenza. Per questo bisogna accettare la viltà, la condanna e il disonore delle tre copie. Accettare che la letteratura ti distrugga in ogni senso, non solo nell’assorbimento delle tue capacità vitali, ma anche nel toglierti l’alone e la forza narcisistica, che pure è indispensabile. È un paradosso. In psicoanalisi si dice che la parola non può esprimere mai completamente il desiderio, eppure la funzione della parola è di esprimere il desiderio. L’inconciliabilità della letteratura sta in questo: non si può fare letteratura senza che entri in campo il più forte narcisismo, che non è solo ambizione o vanità, ma nello stesso tempo la letteratura implica il sacrificio totale di questo narcisis mo. Oggi vedo troppa conciliabilità».


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