Ma negare la Shoah non può essere un reato
Così l’antico capitano delle SS ha potuto muoversi tranquillamente per Roma in mezzo agli eredi delle sue vittime. Ne ha fatto uso per rivendicare un miserabile orgoglio di soldato e per negare l’ingranaggio di morte di cui era stato un piccolo anello. Dietro di lui intanto altri pensavano a come farne un’icona politica dopo il vicino decesso. A favore del disegno c’era la prevedibile benedizione della Chiesa e il consueto facile perdono italico. Ma stavolta dall’alto di quel Vaticano che non aveva visto il rastrellamento degli ebrei del 1943 qualcuno ha visto il disegno e ha inceppato il meccanismo. E subito dopo l’onore dell’Italia civile è stato salvato dal popolo di Albano Laziale. È fallito così il tentativo di una burocrazia cieca e di un manipolo di antisemiti in tonaca di inscenare una celebrazione del morto e del nazismo nei luoghi bagnati dal sangue delle vittime.
Ma da qui le cose hanno preso la strada sbagliata. Dopo la collera immediata e sacrosanta del popolo di Albano è subentrata quella dei poteri statali, dei partiti, dei rappresentanti della comunità ebraica. Ora, l’ira è ottima consigliera quando si deve reagire all’ingiustizia: ma non è con l’inchiostro dell’ira che si possono scrivere le leggi. Una legge è qualcosa che si scrive con attenzione, pensando a quello che ne deriverà. Non si legifera a furor di popolo. Non per questo sono state create costituzioni liberali e rappresentanze elettive. Invece stavolta, a caldo, alla vigilia del 16 ottobre, è stato proposto in Parlamento un emendamento all’art. 414 del codice penale che estende la pena del carcere (da uno a cinque anni), già prevista per i colpevoli di apologia e istigazione di delitti anche a chi nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità.
Ora, di leggi sbagliate ce ne sono tante in Italia: e siccome si ricorre sempre e solo al carcere abbiamo in Italia la vergogna di carceri orrende che scoppiano di abitanti. Ma questa non è solo una legge sbagliata: una norma penale contro un reato di opinione non può entrare nel codice di un paese erede dei principi dell’Illuminismo senza alterarlo in modo sostanziale. Quanto agli effetti di una simile legge basta guardare ai paesi che ne hanno già di simili. È bastata una sentenza austriaca contro David Irving per fare di un sedicente storico che nessuno prendeva sul serio in Inghilterra, un martire della libertà di pensiero. Il suo caso ha fatto scuola. Nella civiltà dello spettacolo ci sono legioni di aspiranti alla “visibilità” pronti a imitarlo. Lo scandalo è la via universale al successo. Una condanna per negazionismo è oggi un buon biglietto d’ingresso sul palcoscenico televisivo della cultura di massa. I più furbi lo
hanno capito subito: lo mostrano gli echi a caldo del caso Priebke. E dietro l’intellettuale che invoca il suo superiore diritto a dubitare ci sono masse di analfabeti civili stufi di rituali di una memoria subìta.
Non per niente Georges Bensoussan ha scritto che «oggi la Shoah è talmente commemorata da generare insofferenza». Bisogna dunque, secondo lui, che dalla politica della memoria si passi alla politica della storia. Ebbene, proprio questo e non altro è il punto. Oggi con la scomparsa della generazione dei sopravvissuti ai lager sta venendo meno la loro opera di “testes veritatis”: un’o-
preziosa, svolta vincendo resistenze profonde, sfidando la distrazione e il rifiuto di un mondo che già all’altezza del 1945 era preso da altre cose e voleva solo voltare pagina. Con altri strumenti si dovrà dunque affrontare la minaccia della dimenticanza e della negazione: due facce della stessa realtà, anche se la menzogna del negazionismo è immensamente più grave perché è la continuazione con altri mezzi della strategia nazifascista.
Non fu per caso se notte e nebbia avvolsero lo sterminio: cancellare le tracce, disperdere le ceneri, furono le strategie di una deliberata amputazione della memoria. Se le potenze dell’Asse avessero vinto, se a Stalingrado i russi non avessero resistito, vivremmo in un mondo che non saprebbe nulla della Shoah. Non è andata così: e oggi nel mondo risollevatosi a fatica dall’abisso c’è una diffusa coscienza di ciò che ci spetta. Sappiamo che la memoria dell’accaduto, la conoscenza e lo studio infaticabile dei fatti sono la sola fragile difesa di una specie umana che non voglia ricadere nell’orrore. E, nonostante l’opinione diffusa, va detto che questo riguarda in particolare gli italiani. L’autoassoluzione che ci siamo generosamente impartiti ha lasciato tutto il peso dell’antisemitismo e della Shoah sulle spalle tedesche. Che cosa fecero o non fecero le autorità politiche e le guide religiose del paese mentre si scivolava sul piano inclinato della caccia all’ebreo e dello sterminio? Qui la ricerca è appena cominciata: non tutti gli archivi sono aperti, ma già, grazie per esempio alle scoperte di Giorgio Fabre e alle più recenti indagini di Lucia Ceci, è possibile rispondere alla domanda di come Mussolini riuscisse a tacitare Pio XI e a tirarsi dietro la Chiesa nell’operazione delle leggi razziali del 1938. Un’operazione con cui l’Italia fascista batté nel tempo la Germania. Quelle leggi ebbero il primo banco di prova nella scuola. Da qui dunque bisogna ripartire, dal luogo dove tutto è cominciato. Una scuola pubblica rinnovata, un sistema di conservazione e trasmissione di memorie e saperi – biblioteche, archivi, formazione di ricercatori e insegnanti – potrebbero essere le armi per far fronte al negazionismo e più ancora alla labilità della memoria dei popoli e degli individui. Ma l’impresa di una campagna di alfabetizzazione civile di un popolo inebetito dal consumo televisivo non è né facile né popolare. Più facile varare un’altra legge
inutile.
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