Netanyahu insiste: il nodo è il nucleare dell’Iran

by Sergio Segio | 24 Ottobre 2013 8:39

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Il premier israeliano «al cemento» amplia le colonie e dimentica che le uniche atomiche dell’area sono le sue. Le accuse di Abu Mazen Altro che negoziato israelo-palestinese. È stato l’Iran e il suo programma nucleare a dominare l’incontro, di sette ore, di ieri a Roma tra il segretario di stato Usa John Kerry e il premier israeliano Netanyahu. Che nell’incontro con la stampa, prima di quello a Villa Taverna, ha ribadito che il programma nucleare iraniano deve essere smantellato. «L’Iran non deve avere capacità di costruire armi nucleari, che vuol dire che non dovrebbe avere centrifughe per l’arricchimento, non dovrebbe avere un impianto ad acqua pesante per il plutonio, che è usato solo per armi nucleari» – ha detto Netanyahu – dovrebbero liberarsi del loro materiale fissile e non dovrebbero avere impianti nucleari sottoterra, che si trovano sottoterra per una sola ragione: scopi militari».
È la versione israeliana delle intenzioni iraniane e Netanyahu, peraltro, evita di parlare dell’unico arsenale atomico esistente in Medio Oriente: quello israeliano. Kerry ha riaffermato la disponibilità americana a tentare l’iniziativa diplomatica con Teheran, rilanciata a Ginevra grazie alle aperture del presidente iraniano Hassan Rowhani, che tanto irrita israeliani (e sauditi). Ma con «gli occhi ben aperti». «Avremo bisogno di sapere che verranno adottate azioni che renderanno chiaro e limpido, assolutamente certo, intrinsecamente sicuro a tutto il mondo che qualsiasi programma venga portato avanti è davvero un programma pacifico», ha aggiunto Kerry. Che ha rassicurato Netanyahu: Washington non allegerirà, per ora, le sanzioni all’Iran.
Subito dopo, riferiva online il quotidiano Haaretz, Kerry avrebbe fatto diverse domande a Netanyahu su questioni riguardanti un eventuale accordo con i palestinesi, prima fra tutte quella dei confini del futuro Stato di Palestina. Non si conosce la risposta di Netanyahu. Ma più di tante parole parlano le azioni. Dall’inizio dell’anno l’espansione delle colonie israeliane nei territori del futuro Stato palestinese è stata del 70%. Una commissione ministeriale inoltre ha approvato la proposta di legge del deputato Ya’akov Litzman per la quale il governo potrà negoziare sullo status di Gerusalemme solo se avrà il sostegno di almeno 80 parlamentari sui 120 della Knesset. «Netanyahu ha promesso di non negoziare su Gerusalemme. La legge nasce per mantenere questa promessa e conservare Gerusalemme unita (sotto il controllo di Israele, ndr)», ha spiegato Litzman.
Kerry recita il suo ruolo, sostiene che il negoziato israelo-palestinese ripreso a luglio procede nella giusta direzione. In verità la trattativa è paralizzata. Lo conferma anche l’allarme lanciato da Tzipi Livni, la ministra della giustizia responsabile delle trattative con i palestinesi. «Uno stallo può portare a uno Stato palestinese che sarebbe imposto e non sarebbe il risultato di negoziati in cui sono rappresentati gli interessi di Israele – ha detto Livni al Congresso ebraico mondiale in corso a Gerusalemme – credo nel processo di pace non come a un favore all’Ue o agli Usa, è nel nostro stesso interesse». Parole evidentemente indirizzate a Netanyahu. Allarme che due giorni fa ha lanciato anche il presidente palestinese Abu Mazen, per il quale è inacettabile la proposta che vuole confini dello Stato palestinese sotto controllo militare d’Israele, con l’accusa esplicita: un fallimento dei colloqui sarebbe da imputare solo a Israele. Ieri Abu Mazen ha usato toni più morbidi e si è detto pronto a incontrare in ogni momento Netanyahu. «Non possiamo permetterci il lusso di fallire, ci sarebbero gravi conseguenze sull’avvenire della pace e della stabilità della regione» ha detto dopo l’incontro con il presidente dell’Ue, Herman Van Rompuy.

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