GIÙ LE MANI DALLA SANITÀ
L’attacco alla sanità pubblica nasce dalla crisi dei bilanci statali della maggior parte dei paesi avanzati, una crisi che sta spingendo inesorabilmente verso l’adozione di politiche di drastico contenimento della spesa. E poiché è diffusa la convinzione che la sanità sia essenzialmente una voce di costo da ridurre, il diritto alla tutela della salute è messo sempre più a rischio. In Italia ciò potrebbe aprire la strada ad un nuovo sistema, peggiore e profondamente iniquo. Dobbiamo tener presente che in questa fase di crisi, con 8 milioni di cittadini in povertà e circa 15 milioni a rischio
di esclusione sociale, la sanità pubblica sta svolgendo un ruolo fondamentale di ammortizzatore sociale. Oggi la componente sanitaria copre circa il 25% della spesa complessiva per prestazioni di protezione sociale erogate dalle amministrazioni pubbliche, dopo la previdenza che ne rappresenta la componente più rilevante con il 65%. Inoltre, l’articolo 32 della Costituzione Italiana, nel sancire la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, obbliga, di fatto, lo Stato a promuovere ogni opportuna iniziativa utile alla migliore tutela della salute. Ma da diversi anni in Italia sono in atto tendenze preoccupanti: nel 2011 la spesa sanitaria pubblica pro capite è stata del 22% inferiore alla media dei principali paesi europei, mentre la spesa farmaceutica pro-capite è stata del 14,5% al di sotto della media con un andamento in controtendenza rispetto agli altri paesi dell’Unione. L’unico aspetto positivo riguarda la gestione dei conti della sanità italiana: dal 2005 al 2011 il disavanzo di esercizio è passato da 5,7 miliardi a 1,3 miliardi di euro. La fetta più grossa del disavanzo è riconducibile a cinque regioni (Liguria, Lazio, Campania, Calabria e Sardegna): è qui che si concentra oltre l’87% del deficit nazionale.
Ora, nessuno mette in dubbio che la sanità pubblica debba essere modernizzata e debba diventare più efficiente, ma è molto discutibile che ciò possa essere ottenuto attraverso una pesante restrizione della spesa, che metterebbe a rischio il funzionamento degli ospedali e la capacità di offrire un’assistenza adeguata alle fasce sociali più deboli.
Diversa è la situazione negli Stati Uniti, dove l’estrema destra repubblicana ha cercato di sabotare con tutti i mezzi la nascita di un forte sistema sanitario pubblico. L’occasione per sferrare l’attacco frontale è stata fornita dalla necessità di alzare il tetto dell’indebitamento federale, pari a 16.700 miliardi di dollari, per continuare a finanziare le spese governative e per rispettare gli impegni con i creditori. In cambio dell’innalzamento del tetto del debito, i repubblicani avrebbero voluto delle modifiche della riforma sanitaria che, nell’immediato, ne avrebbero bloccato l’attuazione e, nel medio-lungo periodo, ne avrebbero svuotato la portata. Ricordiamo che la riforma sanitaria di Obama permetterà a trentatré milioni di americani che ne sono privi di avere un’assicurazione sulla salute. Di questi, 17 milioni saranno associati a Medicaid, l’assistenza pubblica per i poveri; mentre altri 16 milioni fruiranno di una sovvenzione pubblica tramite un credito d’imposta correlato al livello di reddito. Per concludere, siamo convinti che in questa fase di crisi la priorità non sia quella di ridurre ulteriormente il finanziamento pubblico alla sanità, ma quella di potenziare gli investimenti pubblici per la modernizzazione delle infrastrutture ospedaliere, per l’innovazione delle tecnologie sanitarie, per la formazione professionale e per gli interventi di diagnostica e prevenzione. Si tratta di una strategia che non solo permetterà di aumentare l’efficienza della sanità pubblica, ma consentirà anche di offrire maggiore protezione sociale alle fasce più deboli, condizione fondamentale per rilanciare i consumi e quindi la produzione e l’occupazione nel nostro paese.
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