by Sergio Segio | 22 Ottobre 2013 7:04
FRANCIA e Italia non fanno differenza. Come non la fanno la Germania, l’Austria, il Belgio e gli altri Paesi europei alleati. Meglio, se proprio una differenza la si vuole trovare è che in discussione non è “se siamo spiati”, ma “quanto lo siamo”.
E QUESTO soltanto perché, al momento, dall’archivio di Snowden non sono ancora filtrati dati e numeri in grado di documentare con esattezza quando, come e soprattutto in che misura le comunicazioni del nostro Paese da e verso gli Stati Uniti siano state bersaglio dei programmi di sorveglianza cibernetica “preventiva” di Washington.
Accade infatti che con il candore e la naturalezza di chi riferisce l’ovvio, governo e intelligence americani ammettano ora che lo spionaggio delle comunicazioni dei Paesi terzi «è una prassi». Lo dice nella tarda serata di ieri Caitlin Hayden, portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, in risposta alla furia di Parigi («Non commenteremo pubblicamente le presunte attività dei servizi di intelligence e comunque abbiamo detto chiaramente che gli Stati uniti recuperano dati all’estero come gli altri paesi »). Ma, soprattutto, lo racconta Claudio Fava, deputato di Sel, riferendo la sostanza della dozzina di incontri che, dal 29 settembre al 4 ottobre scorsi, una delegazione del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi (Copasir) ha avuto a Washington con i direttori delle agenzie di intelligence americane e con i componenti delle commissioni di controllo sui Servizi di Congresso e Senato Usa. «Dai nostri qualificatissimi interlocutori – dice Fava – abbiamo avuto la conferma che telefonate, sms, e-mail tra Italia e Stati Uniti, in entrata e in uscita, sono oggetto di un programma di sorveglianza elettronica del Governo Usa regolato esclusivamente dalle leggi federali, che, per quanto i nostri interlocutori ci hanno ribadito, sono dunque la sola bussola che governa questo tipo di attività di spionaggio. Non ci sono stati forniti dati sulla dimensione del traffico sorvegliato, ma indicazioni sul metodo che viene utilizzato. Mi è sembrato un tentativo di glasnost
da parte di chi ha la coda di paglia. Ma di chi sa anche che ciò di cui si discute è prassi nota al nostro governo e ai nostri Servizi».
Per come ne ha preso atto il Copasir a Washington (la delegazione è stata tra l’altro portata in visita guidata oltre che negli uffici della Cia a Langley, nell’avveniristica sala di controllo e raccolta dati in tempo reale della Nsa, dove per 15 minuti sono state per questo sospese le attività di spionaggio), il controllo delle nostre comunicazioni da e verso gli Stati Uniti ha un funzionamento non poi così complesso nella sostanza. Il monitoraggio continuo e in forma automatica di migliaia di utenze telefoniche “bersaglio” risponde a una selezione che viene compiuta dalle agenzie di intelligence americane secondo un criterio di “profiling” che le vuole “sensibili” ai fini della sicurezza nazionale. Un perimetro sufficientemente generico e ampio, almeno nella sua enunciazione, da consentire che la qualità delle comunicazioni intercettate sia la più varia, come del resto l’identità degli interlocutori inconsapevolmente intercettati “in via preventiva”. Insomma, né più e né meno che un meccanismo a strascico per una rete di prevenzione nelle cui maglie possono facilmente restare impigliate le comunicazioni della diplomazia (ambasciate e consolati), quelle militari, piuttosto che quelle delle nostre aziende che operano all’estero o quelle di semplici cittadini. Soprattutto, un sistema che, in quanto tale, non consente tecnicamente al Paese bersaglio di avere prove documentali del chi, come, quando e in che misura, è stato intercettato.
Per altro, se in queste ore si torna a bussare al nostro Dipartimento per le Informazioni e la Sicurezza (Dis), la struttura di vertice della nostra intelligence, già interpellata nel luglio scorso dopo la prima ondata di rivelazioni di Snowden, non si racc oglie nulla di più che la anodina rassicurazione di chi al momento evita di sbilanciarsi sul se, quando e in che misura l’Italia sia stata vittima di spionaggio elettronico americano. «La scorsa estate – spiega una qualificata fonte del Dis – dopo le notizie che accreditavano la violazione da parte americana della sicurezza delle comunicazioni delle nostre rappresentanze diplomatiche negli Stati Uniti, abbiamo avviato autonomamente una verifica che ha dato esito negativo. Detto altrimenti, allo stato dell’arte, non abbiamo riscontrato alcuna circostanza che ci possa far dire che le nostre comunicazioni siano state violate. Non abbiamo “pistole fumanti”. Ovviamente, questo vale per ciò che tecnicamente è stato possibile controllare ex post. Perché sappiamo bene che dire che qualcosa non ci risulta non significa che quel qualcosa non sia poi effettivamente accaduto ». Non fosse altro – come conferma la stessa fonte – che, da luglio in poi, né il governo né l’intelligence americani hanno ritenuto di dover fornire spiegazioni ufficiali o tantomeno ufficiose sulle attività di sorveglianza di “Paesi terzi”
accreditate dai documenti di Snowden.
Domani, il Copasir ascolterà Marco Minniti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’Intelligence. E sarà forse quella l’occasione di Palazzo Chigi per rompere l’assordante silenzio che ha steso da tre mesi sul datagate.
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