PERCHÉ LA DEMOCRAZIA NON PUÒ NON DIRSI ATEA

by Sergio Segio | 22 Ottobre 2013 6:44

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C’è una “santa alleanza” che coltiva il proposito di chiedere aiuto Dio per superare la crisi di valori che attanaglia le democrazie occidentali; uno schieramento eterogeneo in cui è possibile trovare il manifesto antilluminista di Joseph Ratzinger, l’impegno di Jürgen Habermas perché la religione ritrovi un ruolo importante nello spazio pubblico della cittadinanza, Tariq Ramadan pure decisamente contrario a fare della religione un fatto privato, papa Wojtyla e la sua crociata contro il relativismo etico. Tutti accomunati nella condanna dell’illuminismo («la superbia luciferina con cui l’homo sapiens rinnova il peccato originale») e nel sostenere che, in assenza del Sacro, l’uomo sia irrimediabilmente condannato a una deriva materialistica che lo scaraventa in un deserto etico, condannandolo a una perpetua carestia morale.
Contro questo schieramento, con lucida intransigenza, scende ora in campo Paolo Flores d’Arcais: «O Dio o il cittadino, due sovrani non possono coesistere». Flores non ha dubbi: la democrazia è imprescindibilmente atea; «la religione resta un fatto di coscienza che ha diritto di manifestarsi in forma pubblica solo come culto, senza velleità e pulsioni di colonizzare o comunque colorare una sfera pubblica che per essere democratica deve restare atea». Non solo la democrazia non ha bisogno di Dio per sopravvivere, ma anzi “senza Dio” è la condizione necessaria e sufficiente perché essa possa prosperare. Introdurre la religione nello spazio pubblico – afferma Flores in La democrazia ha bisogno di Dio: falso! – finirebbe per mettere a rischio ogni forma di coesione, sovrapponendo alla fisiologica conflittualità del pluralismo politico laico le tensioni distruttive delle dispute religiose, con le varie confessioni tese a enfatizzare il proprio Dio contro quello degli altri. Come si vede, è un discorso di grande attualità oggi in Italia, anche alla luce della svolta di papa Bergoglio. Prescindendo però dalle ultime novità pontificie, Flores, contro la presenza sempre più invasiva della Chiesa, propone l’autonomia di una sfera pubblica fondata su un ethos repubblicano «diffuso in modo pervasivo tra i cittadini » e che riconosce come beni irrinunciabili «l’esercizio inesausto del confronto politico razionalmente argomentato » e «il rispetto di ogni stile di vita che non comporti imposizioni ad altri ». I valori che ispirano questo ethos sono quelli “minimi” costituzionali, desunti dal principio “una testa un voto” che è all’origine storica della democrazia liberale.
Proprio pensando all’Italia, sembra però che l’ethos pubblico così come viene definito nel libro non basti a rafforzare la sovranità del cittadino tenendola a riparo da quella di Dio. L’ethos pubblico è una costruzione culturale, nasce dalla capacità della classe politica di costruire un recinto virtuoso in cui i cittadini possano riconoscersi in interessi e in valori comuni. Valori legati ad esempio a un “patto di memoria” che ritrovi nel nostro passato la forza di una tradizione repubblicana, sottolinei le virtù di una democrazia che è nata sulle rovine della dittatura fascista con una impronta “militante” molto accentuata e niente affatto minimalista. Nella Seconda Repubblica i valori sono stati invece schiacciati sugli interessi. E una volta che questo succede, i guasti possono essere irreparabili. Lo spiega bene una citazione di Tocqueville (dello stesso Flores): «La passione del benessere spinge a un ardore insensato verso i beni materiali e porta una nazione a chiedere al suo governo esclusivamente il mantenimento dell’ordine». Una democrazia ridotta ai minimi termini, segnata da un asfittico pragmatismo e colonizzata dalle ragioni dell’economia sembra destinata ad arrendersi a un discorso religioso che, con papa Francesco, si ripropone con grande autorevolezza.
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IL LIBRO
La democrazia ha bisogno di Dio: Falso! di Paolo Flores d’Arcais Laterza, pagg. 128 5 euro

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