«Lavoriamo al bar e nei call center» I ragazzi in tenda dopo la guerriglia

by Sergio Segio | 21 Ottobre 2013 7:16

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ROMA — Ora si sono tolti i cappucci e le felpe nere, sono tornati ragazzi normali stesi al sole di Porta Pia, l’«Acampada» andrà avanti fino a domani e dalle vicine case occupate di via Goito arrivano piatti di pasta fumante al sugo, per alimentare la lotta e queste giovani vite bollenti di «gioia e rivoluzione». Domenica pomeriggio: «Ma chi credete che siamo, noi sotto queste tende? Forse i Sioux?», ti guardano un po’ sfottenti, i ragazzi del Movimento. «Il cappuccio è una difesa, la nostra è solo rabbia, la violenza è altrove, sta nei palazzi marci, si chiama capitalismo, brutalità del lavoro, false buste paga, nuovo schiavismo», racconta Karim, 25 anni, facchino marocchino della logistica di Bologna, con la maschera di Anonymous che adesso gli fa da cappello e lo ripara dai raggi. «Tra noi non ci sono buoni e cattivi, è inutile e sbagliato fare distinzioni», spiega Francesco, del Coordinamento romano di lotta per la casa.
Anonymous, già. Al massimo nomi ma niente cognomi. Movimento che nasce dal basso e rifiuta di farsi etichettare: No Tav, No Muos, No Expo, No Cave, No Tir… Aspettano i pullman per tornare a casa i torinesi di «Askatasuna», i milanesi del «Cantiere», i molisani per l’acqua pubblica e i pugliesi del «Garganistan», con la stella rossa dipinta sulle magliette. Ci sono anche tante ragazze tra loro, giovani donne arrabbiate che hanno letto i libri del filosofo Giorgio Agamben e ti parlano senza un dubbio dello «Stato d’eccezione», «ciò che per voi è illegale per noi è legittimo, capisci?» . I cassonetti incendiati, le bombe carta contro i finanzieri e la polizia, le vetrine sfasciate delle banche, i lanci di sassi e bottiglie: per loro è «conflitto», sono «pratiche di lotta», «assedio ai ministeri doveva essere e assedio è stato», rivendicano in blocco, in maniera convinta, ripensando ai disordini di sabato. «Fuckausterity», ecco un’altra parola d’ordine. E ancora: «Mutuo Soccorso», «Riappropriazione e sollevazione», «No a sgomberi e sfratti».
Insospettabili: «Noi siamo quelle che la mattina ti rispondiamo dai call center o ti serviamo il caffè al bar…», dice la ragazza che ha letto Agamben, bionda, romana e con due occhi dello stesso color del cielo che loro, adesso, tutti insieme, vogliono provare di nuovo ad assaltare, in quest’inizio di terzo millennio, cento anni dopo il movimento operaio di Pietro Secchia.
«Movimento che nasce dal basso e tale vuole restare, nelle valli e nei territori, senza leader e rappresentanti ufficiali — avverte Niccolò, del coordinamento universitari di Bologna —. Due anni fa, il 15 ottobre 2011, il corteo degli Indignados fu molto più violento di quello di ieri, ma perché quel giorno si volle mandare un messaggio preciso ai partiti e ai sindacati che se ne volevano appropriare. E il messaggio arrivò: infatti per strada stavolta eravamo soli…».
Ce l’hanno con la stampa, con i giornalisti, quelli di Occupy Porta Pia: «Cambiate le vostre parole — ammonisce Karim —. Soltanto così potrete cambiare le cose e anche il mondo. Avete riempito pagine e pagine parlando solo di scontri e di violenza, ignorando completamente la nostra lotta per la casa, il reddito minimo, la solidarietà ai 51 licenziati della cooperativa Sgb che lavoravano per la Granarolo. C’erano anche loro a sfilare, ma chi l’ha scritto di voi? Nessuno».
I disoccupati di Napoli, i migranti di Roma in lutto per i morti di Lampedusa. Il coro dell’Acampada è di assoluto rimprovero: «Alla vigilia, voi giornalisti, vi siete fatti impressionare dai proclami degli anarchici (“Noi siamo la bottiglia di nitroglicerina che vacilla sulla testa di uno spillo…”) e dai messaggi delle presunte Nuove Br. Ma non è questa la nostra lotta, non è la lotta che ci interessa».
Ora da qui non se ne andranno finché i palazzi romani non li avranno ascoltati. Sposteranno le tende nel parcheggio del ministero per non intralciare il traffico del lunedì mattina. E lì aspetteranno pazienti fino a domani, martedì, finché non li riceverà il ministro Maurizio Lupi e con lui parleranno finalmente di diritto alla casa. A Firenze, poi, la settimana prossima avranno un incontro anche con l’Anci e il ministro dell’Interno Angelino Alfano: sul tavolo la patata bollente delle occupazioni e del problema dell’accoglienza degli immigrati nonostante la Bossi-Fini. Il calendario è fitto d’appuntamenti: «Facciamo pressione sui nostri carcerieri, il 2 e 3 novembre ci rivedremo a Pisa, il 9 e 10 novembre poi si torna a Roma», annuncia un ragazzo sotto al monumento del bersagliere che ricorda la Breccia di Porta Pia. «Fare breccia», guarda caso, è anche il loro obiettivo. «Voi avete un approccio morale a un problema sociale, è questo l’errore — concludono Niccolò e i suoi amici stretti in cerchio attorno al cronista fuori dalle tende di Porta Pia —. Eppure è semplice la questione: è giusto stare con l’1% che ha tutto o col restante 99? Stare dalla parte dei poveri o di chi ha la pancia piena? Noi questa scelta l’abbiamo fatta».
Fabrizio Caccia

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