Renzi teme le «trappole» del centro

by Sergio Segio | 21 Ottobre 2013 6:44

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ROMA — Quello lo sa e lo ripete spesso ai fedelissimi: «Il Pd non è ancora il partito di cui abbiamo bisogno».
È ancora il partito dove nella dalemiana Lecce le tessere si moltiplicano come d’incanto. Dove in Sicilia viene candidato a segretario provinciale di Enna un personaggio discusso come Miro Crisafulli. L’altro ieri ne ha parlato Pippo Civati. Ieri ci è tornato sopra con forza il renziano Davide Faraone, che dice: «Questo non è il Congresso del Pd ma del Pcus. Mi devono spiegare perché un anno e mezzo fa gli organismi di garanzia hanno deciso di non candidarlo alle politiche per motivi di opportunità e ora invece può diventare segretario. Rottamare questo Pd è ormai un’esigenza prioritaria».
E, ancora, è il partito che di fronte alla Bindi che resiste perché si fa il nome di Pina Picierno per la presidenza dell’Antimafia (la vogliono anche le associazioni), tutto a un tratto, sembra tirarsi indietro e qualche dirigente comincia a dire della deputata campana:«È troppo giovane e Rosy non ha avuto niente».
Comunque, quale che sia la situazione, il Pd, per Renzi, è pur sempre il suo partito. E questo non solo perché ieri la Fiorentina ha fatto una grande rimonta sulla Juve, entusiasmandolo e rendendo felice qualche suo amico romanista. La verità è che il sindaco ormai si è buttato anima e corpo in questa avventura anche se non minimizza le difficoltà.
Sa, per esempio, che portare a votare tre milioni di persone alle primarie con un Pd appiattito sulle larghe intese non sarà «facile». Non crede ai sondaggi che gli danno percentuali da capogiro. Tant’è vero che i renziani (per scaramanzia o perché in possesso di nuove rilevazioni) dicono che il loro leader si attesterà attorno al 65-67 per cento. Non è il 75 di Walter Veltroni. Ma nemmeno il circa 55 per cento di Pier Luigi Bersani.
Renzi sa che appena eletto dovrà combattere molte battaglie, dentro e fuori il partito. La legge di Stabilità sarà risolta prima che lui diventi segretario, ma è chiaro che anche ora una sua parola dura, una sua critica avrebbero effetti sul dibattito in corso. Tanto più che la situazione si è fatta quanto mai incerta. Il sindaco preferisce non infierire troppo perché vede bene che maggioranza e governo si sono incartati. Ma non rinuncia a dire la sua, però non vuole attaccare Letta: «Il tema della mancanza dei quattrini nelle tasche degli italiani è fondamentale. Io avevo proposto di dare cento euro al mese a chi guadagna meno di 2.000 euro. È una misura che costa 20 miliardi circa e che può funzionare avendo il coraggio di riorganizzare completamente lo Stato. Certamente 14 euro al mese in busta paga sono pochi».
Ma è un’altra la battaglia che attende Renzi al varco, dall’otto dicembre: quella della riforma elettorale. Giorgio Napolitano è stato chiaro: niente revisione del Porcellum, niente elezioni. E Renzi su questo non intende assolutamente andare alla guerra con il capo dello Stato. La dialettica sull’amnistia gli è servita per dimostrare che non è un peso leggero, che quando verrà eletto segretario sarà in grado di trattare da pari a pari con chiunque: un segnale che serve sempre con chi è abituato alla liturgia della politica italiana di una volta.
Sulla riforma il sindaco ha le idee chiare: «Dobbiamo blindare il bipolarismo perché la tentazione di tornare indietro c’è, c’è la voglia di avere un sistema in cui vincono tutti e non vince nessuno». Per questa ragione Renzi guarda con sospetto ai movimenti centristi di Mauro e compagni. Non vorrebbe che riuscissero ad attrarre un pezzo del Pdl. E non vorrebbe che, di conseguenza, si creasse anche una scissione nel Pd, a sinistra. Tutto questo sarebbe possibile con un sistema elettorale ad hoc. «Ma il mio Partito democratico — continua a ripetere Renzi a tutti i suoi interlocutori — non potrà mai stare nel campo della conservazione». E allora è inevitabile che sulla legge elettorale sarà battaglia. Anche con il Pdl, se necessario, «perché mica ce li siamo sposati quelli».
Maria Teresa Meli

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