Il garantismo è di sinistra

by Sergio Segio | 18 Ottobre 2013 7:34

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«Perché tanta resistenza all’indulto, soprattutto tra gli elettori democratici? Credo si tratti di un meccanismo perverso, che porta a sospettare sempre e comunque della politica. Un pregiudizio che naturalmente può essere spiegato con l’ultimo ventennio della storia italiana. Quello proposto dal presidente della Repubblica è un atto sacrosanto, che andrebbe illustrato nella sua banale umanità». Settantatré anni, fiorentino, Luigi Ferrajoli è il filosofo del diritto italiano più conosciuto all’estero, forse più famoso nella scena internazionale che nel nostro paese. Ha scritto saggi fondamentali che hanno definito una nozione complessa di garantismo, non solo come sistema di divieti e obblighi a carico della sfera pubblica a garanzia di tutti i diritti fondamentali (dunque sia i diritti di libertà che i diritti sociali), ma anche come sistema di divieti e obblighi a carico dei poteri privati del mercato. Il suo percorso intellettuale è cominciato alla scuola di Norberto Bobbio, di cui è considerato tra gli eredi più autorevoli, ed è proseguito negli anni Sessanta in veste di giudice dentro Magistratura democratica, dove confluivano culture politiche diverse. Ferrajoli s’identifica nel “costituzionalismo garantista” che poi significa «una scelta di campo a sostegno dei soggetti più deboli, come impongono i principi di giustizia sanciti dalla Costituzione».
Le sue posizioni – anche nel terreno delicatissimo della riforma della giustizia – sfidano alcuni tabù della sinistra. Difende la separazione delle carriere tra giudice e Pm, ferma restando l’assoluta indipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico («La sinistra è caduta in un equivoco, anche perché all’epoca di Craxi la separazione fu proposta con l’intento di assoggettare i pm all’esecutivo»). E questo suo ultimo prezioso libro-intervista con Mauro Barberis, filosofo del diritto altrettanto competente, contiene giudizi originali sulla crisi della politica e della democrazia, di cui il tema della giustizia è parte essenziale. A cominciare dal “populismo penale” in voga nel dibattito pubblico (Dei diritti e delle garanzie, il Mulino).
Professor Ferrajoli, che cos’è il populismo giudiziario?
«È il protagonismo dei pubblici ministeri poi passati alla politica. Sono rimasto colpito dall’esibizionismo e dal settarismo di alcuni magistrati, sia durante i processi che in campagna elettorale. Ho proposto anche una sorta di codice deontologico che richiama ai principi di sobrietà e riservatezza, oltre che al dubbio come costume intellettuale e morale. Temo molto quando il magistrato inquirente è portato a vedere nella conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria credibilità professionale. Cesare Beccaria lo chiamava “il processo offensivo”, nel quale il giudice anziché essere un “indifferente ricercatore del vero” diviene “nemico del reo”».
Lei sottolinea il carattere “terribile” del potere giudiziario.
«Sì, carattere “terribile” e “odioso”, dicevano Montesquieu e Condorcet. È il potere dell’uomo sull’uomo, capace di rovinare la vita delle persone. Purtroppo i titolari di questo potere possono cedere alla tentazione di ostentarlo. Cosa sbagliatissima. Quanto più questo potere diventa rilevante, tanto più si richiede una sua soggezione alla legge e al principio di imparzialità. Un obbligo che è a sua volta fonte di legittimazione del potere giudiziario ».
Il populismo penale, le fa notare Barberis, è di fatto l’opposto del garantismo. «Sì, in realtà l’opposto del garantismo è il dispotismo giudiziario, che è presente in tutte le forme di diritto penale con scarse garanzie, in particolare caratterizzate – come avviene in Italia – da una legalità dissestata».
Cosa intende?
«È il vero problema oggi. Disponiamo di leggi incomprensibili perfino ai giuristi, mentre la chiarezza è l’unica condizione della loro capacità regolativa, sia nei confronti dei cittadini che nei confronti dei giudici. Per prima cosa il Parlamento dovrebbe far bene il proprio mestiere, ossia scrivere le leggi in modo chiaro e univoco. È questo il solo modo per contenere l’arbitrio del potere giudiziario. Un obiettivo che non si raggiunge certo riducendo l’autonomia dei giudici e dei pubblici ministeri a vantaggio del potere esecutivo».
Forse è anche per difendere la propria autonomia minacciata che alcuni magistrati sono arrivati ad eccessi.
«Non c’è alcun dubbio. Derisi e pressati da un potere irresponsabile, alcuni talvolta hanno agito per autodifesa. Anche la martellante campagna diffamatoria promossa dalla destra sull’uso politico della giustizia ha finito per inquinare la stessa cultura giuridica dei magistrati che hanno reagito in modo corporativo all’accusa. Non dimentichiamoci che in tutti questi anni la riforma della giustizia ha ruotato esclusivamente attorno ai problemi personali di Silvio Berlusconi, riducendosi a un assurdo corpus iuris ad personam.
E la parola garantismo ha finito per significare la difesa dell’impunità dei potenti».
Un’accusa che viene rivolta alla sinistra, anche da parte non strettamente berlusconiana, è di aver cavalcato quel potere terribile a cui alludeva prima, sostituendo Marx con le manette.
«Mi sembra una ricostruzione ingiusta. La caratterizzazione “giustizialista” – parola che detesto – di una parte della sinistra è stata provocata dallo scandalo dell’anomalia di questo ventennio. Non la giustifico, ma posso spiegarla. Siamo stati governati da una persona che è al centro di una quantità enorme di processi, una parte dei quali forse infondata ma altri fondatissimi. Da qui anche l’enorme aspettativa verso il diritto penale, da cui si pretende che assicuri l’eguaglianza delle persone davanti alla legge».
Non è così?
«Purtroppo da luogo dell’eguaglianza formale il diritto penale è diventato il luogo della massima diseguaglianza. Quella che viene più facilmente colpita è la delinquenza di strada, con la sostanziale impunità dei potenti. Quasi il 90 per cento delle condanne per fatti di corruzione negli ultimi vent’anni è stato inferiore ai due anni, con conseguente sospensione condizionale della pena. Anche l’evasione fiscale di fatto
resta impunita».
Forse questo spiega perché l’opinione democratica tema l’indulto. Per una volta che viene applicato il principio dell’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, si teme che l’indulto possa cancellarlo.
«Sì, ma si tratta di un sospetto tanto velenoso quanto infondato. Naturalmente spetta al Parlamento evitare che a beneficiare dell’indulto siano i reati di corruzione o frode fiscale, reati che non sono mai entrati nella tradizione dell’amnistia. E, per le ragioni che ho ora esposto, a chi si oppone al provvedimento bisognerebbe ricordare che la criminalità dei colletti bianchi è di fatto assente dalle carceri. Le celle sono piene di povera gente, tossicodipendenti e immigrati clandestini. Sarebbero loro a trarne vantaggio».
Anche per snellire la macchina giudiziaria, lei ha proposto la soppressione di alcuni reati come l’immigrazione clandestina. Pochi giorni fa è cominciato in Senato l’iter per la sua abolizione.
«I nostri tribunali sono paralizzati da un marasma di figure di reato che si potrebbero cancellare. Quello di immigrazione clandestina è poi un’assoluta vergogna. Teorizzato nel 1539 da Francisco de Vitoria, per giustificare conquista e colonizzazione del nuovo mondo, lo
ius migrandi è rimasto per secoli, fino alla Dichiarazione universale del 1948, un principio fondamentale del diritto internazionale. Oggi che il processo s’è invertito – sono le popolazioni povere da noi depredate a venire nei nostri paesi – il diritto s’è capovolto in reato. Il risultato è una terribile catastrofe umanitaria. Potrei definirle “le leggi razziali” di questi anni».

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