TORTURA L’attualità del caso Triaca, non solo per l’assoluzione
Il processo riaperto ieri riguardava, infatti, gli interrogatori subiti da Enrico Triaca, dopo il fermo poi tramutato in arresto, nei giorni in cui Aldo Moro era nelle mani dei suoi sequestratori BR. Di Triaca, arrestato in una tipografia romana quale fiancheggiatore dell’organizzazione armata, non si ebbero notizie per una ventina di giorni dopo la sua privazione della libertà; quando ricomparve ufficialmente, dichiarò di essere stato torturato, sottoposto a sevizie e a un waterboarding nostrano. La sua denuncia si risolse in un immediato mandato di cattura per calunnia da parte di quegli uffici che erano guidati da Achille Gallucci, molto solerte nel dipanare questo genere di opache storie. Da qui la condanna, ieri rivista con l’assoluzione.
Gli elementi per la revisione nascevano da altre vicende parallele, che lo stesso Triaca ha raccontato prima all’autore di un libro, poi in una puntata della trasmissione televisiva Chi l’ha visto? La vicenda parallela è quella di pochi anni dopo quel 1978 ed è datata nel periodo finale del sequestro del generale americano Dozier: anche in quell’occasione denunce di sevizie durante gli interrogatori e immediati procedimenti di calunnia, senza minimamente indagare la fondatezza delle denunce; procedimenti che quella volta hanno riguardato anche i giornalisti che ne avevano dato notizia sull’Espresso. Parallelamente, a colui che aveva responsabilità di quelle detenzioni e di quegli interrogatori veniva offerto protettivamente un seggio in Parlamento dall’allora Partito socialdemocratico. Ma, a quasi trent’anni di distanza, Salvatore Genova – questo è il funzionario divenuto onorevole che operò allora – ha deciso di vuotare il sacco, ricostruire quegli eventi e proprio a Pier Vittorio Buffa, uno dei due giornalisti che avevano riportato i fatti e che erano stati per questo denunciati, ha rilasciato un’intervista video in cui racconta le pratiche di allora in quegli interrogatori.
Pratiche che non avevano riguardato un agitato investigatore a cui la situazione era sfuggita di controllo, ma da un gruppetto all’uopo predisposto, inviato appositamente dalle autorità superiori, che aveva ormai expertise nel campo, coordinato da una sorta di signore delle tenebre che veniva nominato con il nickname «de tormentis», nome osceno quanto il suo operare.
Questa testimonianza ha aggiunto qualcosa di più a quanto la magistratura veneziana aveva già accertato nel caso degli interrogatori sul rapimento Dozier: la sistematicità, seppure in situazioni eccezionali e, quindi, il disegno e la possibilità di replicare qualora necessario. Ha aggiunto un elemento di verità culturale che va oltre la già grave situazione di non aver potuto dare esito alle indagini veneziane perché privi di una ipotesi incriminatrice adeguata nel nostro codice – la tortura – e quindi costretti, allora come oggi, a perseguire tali gravissimi comportamenti con ipotesi deboli, esposte a implacabile e rapida prescrizione. L’elemento di verità culturale risiede nell’aver previsto tale pratica come ipotesi possibile, al di là di ogni dettato costituzionale e di ogni convenzione ratificata per rigettare tali pratiche in un passato ormai chiuso. Ma, apre altresì la porta alla revisione delle altre storie, quale quella di Triaca, in cui tale gruppetto può avere operato: del resto di «de tormentis» si sanno ormai nome, idee e vezzi culturali; sarà perciò interessante cogliere qualche elemento di verità da ciò che egli potrà dire, se i magistrati incaricati della revisione vorranno approfondire, sulla base anche del pronunciamento di ieri.
Approfondire è doveroso. Perché il parametro della verità, anche di quella limitata ricostruibile nelle aule di giustizia, è un parametro fondamentale soprattutto quando le questioni non riguardano soltanto i singoli, ma il vivere sociale, il ritrovarsi di una comunità attorno a valori fondanti e a principi da fissare come non revocabili anche in situazioni di emergenza: sarà proprio la Convenzione contro la tortura, qualche anno dopo quegli eventi, a porre il divieto assoluto di tali pratiche quale norma inderogabile anche in situazioni di eccezionale gravità. Quanto questo principio sia scritto non solo nelle norme, ma anche nella cultura e nelle pratiche del nostro Paese, lo si leggerà anche dall’attenzione che verrà dedicata a questa vicenda giudiziaria, erroneamente vista come minore. Perché essa ci interroga ora e qui; in essa passato e presente dialogano strettamente. Citando l’apparentemente involuta, ma semanticamente chiara frase di David Cooper: «ora che ora e allora non è allora, ma semplicemente ora».
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