Così all’estero il lavoro svuota le carceri

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Negli Stati Uniti c’è un carcere, quello di Rikers Island, dove la banca d’affari Goldman Sachs — che con la garanzia della fondazione del sindaco newyorkese Bloomberg ha messo 9,6 milioni di dollari in un progetto di riabilitazione attraverso il lavoro e lo studio di 3 mila detenuti — guadagnerà 2,1 milioni di dollari di interessi pagati dal governo americano se la recidiva dei detenuti sarà scesa almeno del 10%.
Non è fantascienza buonista ma serissima sperimentazione all’estero dei social impact bond , cioè di prodotti finanziari sulla scia delle tradizionali obbligazioni, con la differenza che alla scadenza garantiscono un certo rendimento ai privati sottoscrittori soltanto se è stato raggiunto il risultato prestabilito per un certo progetto di interesse pubblico.
Se il risultato è centrato, infatti, ci guadagnano proprio tutti. I detenuti rientrano nella vita quotidiana con un reinserimento reale e stabile. Per i cittadini la minore recidiva degli ex detenuti si traduce in maggiore sicurezza nella società. Lo Stato raccoglie risultati sociali ed economici (minor recidiva si traduce in meno nuovi reati che vogliono dire anche meno soldi da spendere in repressione e carcere) senza dover impegnare all’inizio grosse cifre per investimenti per i quali non ci sarebbe margine nei malconci bilanci pubblici. Le associazioni non profit, che svolgono sul campo il lavoro di reinserimento lavorativo-sociale, trovano sul mercato finanziario quei fondi che altrimenti lo Stato non sarebbe in grado di impegnare. E gli investitori privati incassano i frutti di bond dal rendimento assai maggiore e protratto rispetto alla maggior parte delle alternative in Borsa.
Ovvio però che occorrano strumenti di misurazione affidabili, altrimenti diventa impossibile convincere investitori privati, i quali in caso di insuccesso dei progetti rischiano di perdere totalmente il proprio capitale investito. Eppure questo modello, di cui dopo un seminario romano mercoledì alla Uman Foundation si parlerà oggi a Padova all’Officina Giotto in un convegno sul lavoro in carcere con i ministri Cancellieri della Giustizia e Zanonato dello Sviluppo economico, sembra maturo per poter trovare sperimentazioni anche in Italia, dove mesi fa si è già fatta fatica a difendere almeno la destinazione di 16 milioni al rifinanziamento della legge Smuraglia sul (pochissimo) lavoro in carcere, e dove però i dati sulla recidiva fanno intravvedere quanto possa essere efficace proprio la leva del lavoro per i detenuti. Se infatti quasi 7 su 10 che scontano tutta la pena in carcere tornano poi a delinquere, questo tasso di recidiva non soltanto scende intorno al 19% per chi sconta parte della propria pena in misura alternativa al carcere (come l’affidamento ai servizi sociali), ma nell’esperienza concreta di alcune cooperative sociali si è misurato precipiti sino all’1% laddove quella misura alternativa al carcere sia accompagnata proprio da un reinserimento lavorativo.
Soldi ben spesi, insomma, forse gli unici, investimenti veri, seppure lunghi e faticosi e poco spendibili al mercato della propaganda politica di corto respiro, ma con i quali converrà al più presto fare i conti se non si vuole che da emergenziali diventino permanenti tanto il sovraffollamento delle carceri quanto il fallimento strutturale delle misure di clemenza che non hanno potuto impedire il riempimento oltremisura delle carceri pur svuotate dall’indulto del 2006.
Luigi Ferrarella


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