Il sindaco e le parole su Napolitano: qualche volta gli si può dire di no

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BARI — «Le leggi non le fa Napolitano, non gli si può dire sempre di sì, sennò il Paese va a rotoli»: è un Matteo Renzi che non torna indietro sulle parole pronunciate poco prima dal palco della Fiera del Levante. Un Matteo Renzi che parla già da segretario del Partito democratico, ma che proprio per questo vuole dimostrare che il ruolo non lo cambierà.
Lui rimarrà quello di sempre: «Non muto, non faccio il piacione, non mi sposto a sinistra». Il sindaco sa che questa prima fase non sarà facile. Nel voto dei circoli dove contano i militanti, e che precedono le primarie per il leader, l’apparato che vota per Cuperlo è forte: «Nei circoli sarò un goccino avanti io o un goccino avanti lui». I suoi uomini condividono questa opinione. Stefano Bonaccini, coordinatore della campagna di Renzi, ammette: «Nei circoli sarà dura». Angelo Rughetti, responsabile dei renziani laziali, spiega: «La nomenclatura farà di tutto per sbarrarci il passo». I sostenitori del sindaco più ottimisti danno a Renzi il 45 per cento e il 30 a Cuperlo. I più pessimisti danno al sindaco il 40 e al suo avversario il 35.
Eppure Renzi pensa già a come riuscirà a portare avanti il doppio incarico di segretario e sindaco, come ha spiegato ai fedelissimi: «La mia esperienza di primo cittadino non sottrarrà tempo alla mia funzione di segretario, ma arricchirà la mia attività nazionale». Già perché il Pd a cui pensa Renzi è un «partito pesante nel territorio e leggero a Roma»: «Dobbiamo fare politica vera, concreta e quotidiana ogni giorno sul territorio coinvolgendo i nostri elettori e il popolo delle primarie».
Ecco perché secondo lui è un bene fare il sindaco e il segretario per imporre «la concretezza amministrativa sulla fumosità del potere centrale». E allora «basta con il partito della nomenclatura, che pensa solo alle auto blu, ai rimborsi dei taxi. Non voglio una classe politica che sta a Roma nel chiuso delle stanze del partito. E anche il segretario non deve rimanere barricato lì a fare riunioni per decidere nomine, incarichi di sottogoverno, per distribuire posti di potere».
Renzi sa bene che potrebbe «pagare un prezzo» con questa sua scelta di fare il sindaco e il leader ma è pronto a intraprendere la sfida. «Ci sarà da divertirsi», dice con quel pizzico di incoscienza che ha fatto di lui l’uomo che è, il politico che non torna indietro nemmeno quando i fedeli collaboratori gli fanno sapere che Napolitano potrebbe non gradire la sua tirata sull’amnistia. Poi gli leggono una dichiarazione di Letta critica sulle parole da lui pronunciate sull’amnistia. Appena arriva a Firenze gli giunge la telefonata di Dario Franceschini. Per conto del presidente del Consiglio, il ministro per i rapporti con il Parlamento vuole capire bene che cosa abbia detto in realtà il sindaco sull’argomento. Lui glielo spiega punto per punto, senza ovviamente fare retromarcia e ribadendo questo concetto: «Napolitano ha il diritto di fare queste proposte, noi di bocciarle».
Renzi tira dritto per la sua strada. I sondaggi, del resto, continuano ad andare bene. È vero che ha perso nel popolo del centrodestra che adesso sembra preferirgli Enrico Letta, ma in compenso attira gran parte dell’elettorato del Movimento cinque stelle ed è questo il motivo per cui Beppe Grillo lo attacca un giorno si e l’altro pure.
Il non cambiare è la sua forza, e ciò che lo rende diverso dagli altri politici, il che non significa però che il sindaco di Firenze non sappia costruire le sue alleanze e cercarsi delle sponde. Con Cuperlo si sente abbastanza spesso. I due hanno costruito un rapporto negli ultimi tempi. L’idea è quella di una gestione unitaria, collegiale, ma non come si intendeva nella vecchia politica. Nessun patto consociativo tra le correnti. Anzi, l’esatto contrario: l’annullamento delle correnti, in modo che una nuova generazione prenda piede e si impadronisca delle leve del partito senza che si possa dividerli in renziani, cuperliani, dalemiani, franceschiniani. Ed è anche questa la ragione per cui Renzi (ma anche Cuperlo) presenterà alle primarie una lista unica, non tante liste in cui le diverse componenti che lo sostengono potranno pesarsi. Ieri, del governo, Renzi non ha voluto parlare, o quasi. Lo ha fatto apposta: «Enrico non potrà dire niente, non gli ho dato nessun appiglio perché si possa dire che ho attaccato l’esecutivo».
Del resto, lo ha spiegato ai deputati più fidati: «Con Enrico sono stato onesto. Gli ho detto: starò al tuo fianco finché farai le cose per bene. Io l’ho detto tante volte e non mi stanco di ripeterlo: sono una persona leale. E a un politico bisogna chiedere lealtà, non fedeltà».
Perciò, assicura il sindaco di Firenze, Letta non ha niente da temere da lui: «Non farò il mestrino, non mi metterò a dare i voti al governo, non è compito mio, io sfiderò l’esecutivo ad avere una visione per il futuro del Paese, lo incalzerò sui grandi temi».
Anche se è impossibile negare, anche per Renzi, che i problemi ci sono, che Alitalia, Telecom e l’Ilva, tanto per fare tre nomi, sono tre problemi grossi come una casa. «Ma vi pare che io starò ogni giorno a pensare a come far cadere il governo?», chiede infastidito il sindaco a chi glielo chiede e aggiunge: «Tra un po’ dovrò pensare a come fare il Pd perché questo non è ancora il partito di cui abbiamo bisogno». Ma è chiaro che un pensierino a palazzo Chigi ce lo fa, sennò perché ricorda che la sala in cui ha parlato «è quella in cui alla Fiera del Levante parlano i presidenti del Consiglio»?
Maria Teresa Meli


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