La lotta contro il tempo dei soccorsi «Non vogliamo più contare i corpi»

by Sergio Segio | 12 Ottobre 2013 6:57

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LAMPEDUSA —Le sei di pomeriggio. L’allarme suona di nuovo sul porto di Lampedusa, come in una battaglia che si sopisce per qualche ora e subito ricomincia. Due motovedette classe 300 della costiera escono in tre minuti, con i motori che ruggiscono verso il mare. Francesco, un marinaio giovane ma già esperto, impreca: «Così lontano non li salviamo, maledizione, li troviamo tutti morti!». E le radio di bordo gracchiano la notizia, secca e terribile: a sessantacinque, settanta miglia da qui, in «zona Sar, di ricerca e salvataggio maltese», si sta inabissando un altro barcone, 250 disperati annaspano tra i flutti.
Pare una dannata fotocopia. La paura di rivivere la scena di giovedì 3 ottobre davanti alla spiaggia della Tabaccara è enorme. E stavolta l’angoscia è persino più forte, se Francesco e gli altri ragazzi in divisa bianca hanno ragione: è come se le vittime di nove giorni fa avessero infine mutato le coscienze. «Si vedono cadaveri sull’acqua, una dozzina di corpi», è la nuova comunicazione che qui fa sobbalzare i cuori. «Potremmo arrivare laggiù e scoprire che il mare ha inghiottito ogni cosa».
Non sarà così, miracolosamente.
Mezz’ora più tardi un elicottero della nostra Marina sta già tirando su qualche naufrago, mamme, piccini, giovanissimi fuggiaschi, molti siriani. Volpe 211, l’elicottero della Finanza decollato da Lampedusa sta già illuminando la scena e coordina i guardacoste Calabrese e Zoccola, ventiquattro fiamme gialle a bordo. Ecco che il pattugliatore d’altura Lybra, uscito in emergenza assieme alla Chimera e all’Espero, accoglie già dieci, venti, infine cinquantasei anime, e a bordo si ripete la scena di sempre, cui è impossibile abituarsi: visi stravolti, labbra tirate dal freddo e poi una coperta d’alluminio dorato sulle spalle, il ristoro di un tè caldo: «Stavolta non vogliamo contare i morti, vogliamo contare i vivi!», si strillano l’un con l’altro i marinai italiani per farsi coraggio, laggiù, in mezzo al mare che si fa più blu e poi troppo scuro, troppo presto: «Forza ragazzi!». I maltesi hanno avvistato la barca, fanno la loro parte.
Ma è una lotta contro il tempo, sul filo dell’angoscia, nello specchio d’acqua a settanta miglia sud-est e il molo di Lampedusa, dove adesso gli uomini dei pescherecci, che cento e cento volte sono usciti a prendere i migranti, si preparano a rimboccarsi le maniche, già da stanotte. Alle nove della sera arriva la notizia che i maltesi hanno recuperato centocinquanta naufraghi, i dispersi sarebbero almeno cinquanta: altre vittime dei viaggi della speranza, che si aggiungono ai 339 morti ormai accertati nel naufragio di giovedì, contabilità assurde, statistiche che nascondono lacrime e sangue.
Scruta il mare e scuote la testa Vito Fiorino, l’eroe del 3 ottobre, che sulla sua Gamar assieme a sette compagni salvò quarantasette eritrei: «Se non ho capito male, lì siamo a sessanta, settanta miglia da Lampedusa, quello è un punto dove andiamo ogni tanto a pescare: ci sono duecento metri di profondità, non mi sento di farmi illusioni».
Il mare è mosso, sì, i pescherecci stasera sono tornati presto e adesso tutti attendono i profughi sul porto, con una tempesta nell’anima, perché il centro d’accoglienza di Imbriacola è già al limite del collasso e tuttavia l’isola è questo, braccia allargate in mezzo al mare, anche se è sempre più difficile accogliere gli ultimi degli ultimi, trovare la forza di non perdere la propria umanità alla millesima emergenza. «Stanno arrivando dieci bambini», è la voce che si sparge sul porto poco dopo le otto: «C’è un elicottero con dieci bambini che sta scendendo qui». E anche questa scena ricorda il 3 ottobre, allora fu strage di piccoli, le bare bianche nell’hangar dell’aeroporto stanno ancora lì, in attesa di sepoltura. Adesso i morti sarebbero cinquanta, e anche stavolta ci saranno bare bianche da allineare, orsacchiotti da appoggiarvi sopra come un estremo e un po’ ipocrita gesto di riparazione.
«La verità è che bisognerebbe fermare questo fiume di gente», sospira Fiorino. E invece gli sbarchi sono ripresi impetuosi in queste ultime trentasei ore. Con la Libia che è ormai un ex Stato dominato dalle bande, potremmo vivere giorni molto difficili. Si tratta di attrezzarsi, di ricordare al mondo che non siamo gli unici soccorritori possibili. Pochi giorni fa, Felicio Angrisano, l’ammiraglio comandante generale della Guardia Costiera, proprio dal molo Favarolo si sfogava, spiegandoci: «Sono molto preoccupato, da domani può arrivare di tutto sulle nostre coste».
L’esperienza non lo ingannava. Sicché la lunga notte dei soccorsi e della paura è in realtà incominciata l’altro ieri: barche della guardia costiera in mare, capitanerie di porto allertate, sistemi satellitari roventi di richieste d’aiuto. In poche ore, sono stati salvati più di mille migranti, cinquecento su cinque barche nel Canale di Sicilia. Ibrahim, quattro anni, a Trapani, sceso a terra stringendo la mano alla mamma, è stato solo per qualche ora il simbolo d’una promessa mantenuta. Ora una mamma e due bambini sbarcano al molo Favarolo: gravi, senza forze. Le luci del poliambulatorio sono accese: «Ho allertato tutti», dice Pietro Bartolo, il direttore. La lunga notte continua.
Goffredo Buccini

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