Marchionne: non c’è l’accordo Il collocamento Chrysler va al 2014

by Sergio Segio | 4 Ottobre 2013 7:49

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Chi ancora non l’ha fatto – e sono «molti», dice Sergio Marchionne – si rassegni e si scordi una volta per tutte di quella che a lungo è stata «mamma-Fiat». Una cosa, un’idea (di azienda) «vecchiotta, fuori moda e un po’ ingombrante, di cui nei discorsi da bar si parla come se fosse un peso». Solo che «mamma Fiat» non esiste più. Da un pezzo. Resiste l’immagine-stereotipo, certo. E «la maggioranza degli italiani» è anche «in buona fede», persino sui «tanti pregiudizi»: oggettivamente al Lingotto «il ritmo del cambiamento è stato così veloce da contribuire ad ampliare la distanza dal Paese». Poi però c’è pur sempre «qualcuno» che «questa distorsione della realtà la alimenta in modo consapevole e pretestuoso».
La verità è un’altra, ripete l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler mentre riceve la Medaglia Aprutium a L’Aquila, terra d’Abruzzo che è anche la sua, terra di gente che «cade e si rialza e non perde tempo a lamentarsi». È che quanto Torino «ha fatto negli ultimi dieci anni» è stato «ogni sforzo per uscire da un isolamento che ne avrebbe pregiudicato il futuro». È che, grazie a questo, «abbiamo creato dalle potenziali ceneri di un costruttore italiano un gruppo con un orizzonte globale». È infine, la verità di Marchionne, l’elenco degli investimenti fatti, in corso, o in programma da noi. Non sarebbero stati possibili, se il Lingotto non si fosse salvato aprendosi all’estero. Ed è «questa strategia» che, rivendica, dopo le fabbriche già riconvertite «ci permetterà di avviare nuove produzioni nei nostri stabilimenti italiani, destinate a servire i mercati di tutto il mondo». Un «atto di coraggio contro il declino», scandisce. Un «gesto di fiducia verso il futuro». Fatti qui, nel Paese che, a sentire chi «alimenta i pregiudizi e la distorsione della realtà», Torino sarebbe pronto a mollare.
Non accadrà, ripete. La «scommessa Italia» è nuovamente confermata. Tanto più dopo gli ultimi sviluppi politici. Marchionne era a New York con Enrico Letta, il giorno del preannuncio di dimissioni dei parlamentari Pdl. Aveva guardato allibito (come i più) all’escalation di fibrillazioni che ne era seguita. Ora non può che dirsi «felicissimo» della fiducia al governo: «Serve a recuperare credibilità all’estero». Recupero che darà una mano anche a lui, almeno in parte, perché nella partita che sta giocando la sola reputazione personale (pur molto alta) rischia di non bastare fino in fondo. Come reagiranno, negli Usa, quando l’«italiana» Fiat si fonderà e andrà a Wall Street con l’«americana» Chrysler? Non sarà del tutto secondaria, l’immagine del Paese.
Il problema è in ogni caso di dopodomani. Oggi il nodo (di tutto) resta la trattativa con Veba, il fondo del sindacato Uaw. «Il dialogo deve continuare per forza», dice Marchionne, ma «no», per ora le posizioni non sono più vicine (come in Italia, su altre questioni, con la Fiom: «Continuiamo a invitarli a firmare il contratto, visto che entrano nel pieno delle relazioni con Fiat. Se non vogliono è un problema loro»). Quindi si va avanti con le procedure per la quotazione, a Detroit, anche se l’Ipo «potrebbe slittare al 2014» e pur se l’obiettivo vero è solo «chiarire come i mercati valutano Chrysler». Con un primo avvertimento di Fitch: se per l’intero pacchetto Veba il prezzo superasse i 5 miliardi di dollari il rating Fiat sarebbe a rischio.

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