by Sergio Segio | 4 Ottobre 2013 6:38
Sopra ogni altra norma, c’è la Carta, articolo 10, comma 3: «Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica». Erano stati lunghi anni di violenze e privazioni, di donne e uomini, qui in Europa, perseguitati per la razza e per le idee, che attraversavano confini e varcavano mari in cerca di salvezza. I costituenti ripudiavano la guerra (articolo 11) e aprivano le braccia ai rifugiati. Entrata in vigore: primo gennaio 1948.
Non era una preoccupazione solo italiana. Dopo i rivolgimenti, le stragi e le migrazioni forzate del secondo conflitto mondiale, con le scintille appena accese del nuovo scontro tra blocchi, le neonate Nazioni Unite crearono nel 1950 l’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Acnur, nell’acronimo italiano, Unhcr secondo la dicitura inglese, più diffusa. È un funzionario della sezione legale dell’Unhcr, Riccardo Clerici, allora, che aiuta a orientarsi nelle norme che regolano il diritto d’asilo. La Convenzione firmata a Ginevra nel 1951, e ratificata da Roma nel ’54, detta la definizione di «rifugiato»: «Colui che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese». In sostanza: donne, uomini e bambini, che hanno attraversato un confine internazionale perché rischiano la vita, hanno diritto a essere protetti e non respinti. È il principio base del «non-refoulement» sancito nell’articolo 33: il divieto di rimandarli indietro. Nel Paese di origine, ma anche in ogni altro luogo in cui sarebbero in pericolo.
Fissati questi pilastri, per molti anni le norme italiane non si sono aggiornate. Solo nel 1990, caduto il Muro, la legge Martelli ha abolito la riserva geografica della Convenzione (che era limitata all’Europa). Bisogna aspettare la Bossi-Fini (2002) per i cambiamenti più consistenti: l’istituzione delle Commissioni territoriali (dieci) che esaminano le richieste d’asilo. Quando arriva in Italia, il rifugiato, perché gli sia riconosciuto lo status, inoltra la domanda. Decreti successivi, che recepiscono direttive comunitarie, indicano i criteri della risposta delle Commissioni e introducono la protezione sussidiaria (non si riconosce lo status, ma comunque un bisogno di assistenza). Rilevante (e penalizzante) per l’Italia, il regolamento di Dublino II (2003), per il quale competente a valutare la richiesta di asilo è il primo Stato in cui il migrante ha messo piede. È il motivo per cui molti migranti da noi tentano di sfuggire al fotosegnalamento e al database Eurodac: non vogliono presentare domanda qui, perché sperano di andare più a Nord, verso Paesi come la Svezia che hanno sistemi di accoglienza e soprattutto di integrazione dei profughi più generosi.
Non c’è una sostanziale difformità di regole tra Roma e il resto dell’Europa. Da noi manca però una vera legge organica in materia, e la trasposizione della normativa internazionale è incompleta. Si aggiungano differenze di Welfare. E un’organizzazione meno fluida. «È tutto gestito nell’emergenza», spiega la professoressa Marina Calloni della Bicocca di Milano, coautrice di Chiedo asilo. Essere rifugiato in Italia : senza una visione centrale e organica, si finisce per scaricare il problema sui territori. È un’osservazione che viene anche dall’Unhcr: manca un «sistema strutturato e funzionale per la protezione, assistenza ed integrazione, e che riduca le difficoltà operative per le amministrazioni locali, il volontariato, le forze di polizia e tutti gli operatori del settore».
C’è da osservare, ammette anche l’Onu, che le nostre frontiere sono sottoposte a carichi diversi, molto più pesanti e concentrati del resto d’Europa. Oltre 30 mila sbarchi quest’anno, registra l’Unhcr, la gran parte a Sud della Sicilia. Il dato, però, non si traduce in richieste d’asilo. Che da noi restano contenute: 17.352 nel 2012 a fronte delle 97 mila presentate in Francia, per esempio, 38 mila nel piccolo Belgio. Se in Italia si conta circa un rifugiato ogni mille abitanti, in Germania sono 7 su mille. In Svezia, addirittura 9 su mille. E lì nessuno parla di emergenza.
Alessandra Coppola
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