by Sergio Segio | 2 Ottobre 2013 7:49
L’ho sempre pensato, lo pensano in molti, ma l’altro ieri Andrea Bajani ha avuto il coraggio di scriverlo in modo molto chiaro sul quotidiano La Repubblica a proposito del mondo dei libri. Qual è la tesi di Bajani, scrittore di punta dell’Einaudi e uno dei nostri migliori in assoluto, che fa questa riflessione partendo da un libro di Giuseppe Culicchia fresco di stampa rivolto a un giovane autore (E così vorresti fare lo scrittore, Laterza)? La scelta di quell’editoria che nasce di fatto negli anni ’80 dalle macerie delle ideologie, cresce insieme con tutti gli altri mercati che vanno verso la globalizzazione, ha aumentato in maniera esponenziale la produzione di merci, cioè tonnellate di libri a volte inutili, senza nessuna urgenza, formale e morale, scadenti letterariamente, in questo quarto di secolo cosa ha fatto per costruire davvero un progetto culturale alternativo? Niente. Infatti, questa è la risposta che si dà: chi legge male, elegge male.
Parafrasando il Nanni Moretti di chi parla male, pensa male. Altro che le televisioni di Silvio Berlusconi! Quelle sono solo un alibi che bisogna abbandonare, non è utile. Ha ragione da vendere, e richiama a una responsabilità civile non solo coloro che in questo paese si occupano di libri, ma chi di fatto è un intellettuale organico al sistema, prestato al mondo dell’informazione, della comunicazione, della cultura, e registra semplicemente quello che è accaduto e continua ad accadere senza nessuno scandalo, in un teatrino dove quasi tutti gli intellettuali partecipano attivamente con narcisistiche e imbarazzanti saghe dell’autopromozione, stucchevoli emondane serate ai premi letterari, truffaldini quanto la torbida, putrescente politica italiana. Un mondo consociativo che non ha più limiti e steccati, ma che riguarda, a parte qualche eccezione, anche giornalisti, conduttori televisivi, politici, e che in questo ventennio non ha risparmiato neanche i redattori delle case editrici, piegati all’ossessione dei budget, strozzati dalla violenta, frenetica macchina industriale obbligata a produrre successi, e a vendere a tutti i costi libri che molti di loro persino detestano: la favoletta del cantante rock, l’omelia del Cardinale, il sermone del mistico, il romanzo storico ultra-colto e a trama sofisticata del noto intellettuale (che a volte è proprio quello che nel ’63 stanava le Liale), il diario della minorenne adultera. Libri di cui non sentivamo il più delle volte il bisogno, ma che «funzionano», «si fanno leggere», sono «belle storie», «attraggono», tutti con l’ossessione della trama, ideologia di un pensiero autoritario della lettura, scritti e già pronti per diventare film, quindi moltiplicare (si spera) i profitti.
Libri leggeri di intrattenimento spesso addomesticati, vampirizzati da abili editor, scritti da autori che mirano solo al successo economico e personale, in una idea tutta manageriale della letteratura commerciale di consumo. Libri che scalzano quelli veri, sommergono i più sorprendenti, i più feroci, i più torbidi, quelli dove c’è ancora una componente molto alta di letterarietà, di visione, di cattiveria, tutti ottimi anticorpi per lettori desiderosi di nutrimenti. È la chiara rappresentazione di un mondo dove le merci hanno umiliato la cultura, uno stato di cose tale che, se così perdurasse, non farebbe intravedere nessuna possibilità di catarsi, ma solo ulteriori imbarbarimenti, estetici e sociali.
Con qualche eccezione anche molto significativa. Perché se ancora si stampano autori come Michele Mari, Antonio Moresco, Franco Arminio, tanto per citarne alcuni, e qualcuno pensa addirittura di fare un libro di 800 pagine raccogliendo le prose migliori di Luigi Di Ruscio, un autore assolutamente elitario, commercialmente sconveniente, è segno che anche dentro le case editrici maggiori è in atto un conflitto tra chi ragiona solo con le cifre, e chi intende coniugare i numeri con la qualità, e magari progettare anche un catalogo, come si faceva ai tempi di Vittorini e Calvino all’Einaudi, Bianciardi e Bassani da Feltrinelli, Vittorio Sereni da Mondadori. Forse sarebbe il momento, come ben ha fatto Bajani, di ricominciare a interrogarsi, a sviluppare pensiero critico, e a far sì che questo conflitto si manifesti in modo più eclatante in termini di dibattito pubblico.
Comunque sia, sulle questioni da lui evocate aveva già scritto in presa diretta sui tempi già Paolo Volponi nel 1989, inascoltato, in quel capolavoro che è Le mosche del capitale: «Il racconto è finito. La narrazione, se vuole, è il bancone del supermercato. Lei non potrà raccontare mai niente di me!» sentenziava in quel libro profetico Bruto Saraccini, quel Don Chisciotte alter ego dello scrittore. Il resto è una normale, quanto prevedibile, conseguenza.
Tutto questo ha a che fare con una mutazione profonda, per molti dovuta allo stato del capitalismo planetario di oggi che considerano invalicabile, eterno, in cui al massimo si può far crescere il peggio per conservare un po’ del meglio, questa è l’ideologia portante, contro cui Bajani ha il pregio di nominare e porre degli interrogativi, di indignarsi da cittadino di un paese che affonda nei suoi vizi antichi, e nella scarsa propensione civile dei suoi intellettuali, pavidi, terribilmente narcisi e carrieristi.
Un paese dove la cultura non è più lo strumento del comunicare e del capire, quello che ha alimentato febbrilmente il nostro immaginario e le nostre passioni negli anni giovani, e saziato il senso critico, ma un ornamento, una foglia di fico. Un paese dove gli insegnanti non leggono più e non se ne vergognano, e gli amministratori dei tanti comuni, delle molte città, dovrebbero chiamarsi solo assessori allo Spettacolo, perché anche loro sono stati avvelenati dal reality e cercano l’audience, il nome di richiamo, l’evento, per paura di essere impopolari. Tutto il resto, quello che fa pensare, si sa, è «difficile», «noioso», «impegnativo», meglio restare in una apatica superficialità a-conflittuale. Viviamo in un paese senza, per l’appunto, dove si produce solo cinismo di massa, pieno di tutte quelle culture nefaste che non hanno più un avversario sul campo della dialettica sociale, e che potentemente producono senso e consenso, avvelenandoci la vita.
Quando è uscito il mio ultimo libro, durato anni di fatiche, ho pensato davvero quello che scrive Bajani, cioè che era diventato un periodico. Vive tre mesi, poco più, oggi, un’opera di letteratura, come un qualsiasi prodotto da banco che si affida al mercato, poi scade per sempre. Escono le recensioni, vieni invitato a parlarne alla radio, fai qualche presentazione in pubblico, poi il ciclo si interrompe, non c’è più tempo, c’è già un altro autore che cerca il suo mercato, a meno che non lo tieni in vita il tuo libro, come sto facendo, girando come un pazzo per l’Italia. Ma è un mercato sempre più al ribasso, dove in cima alle classifiche ci sono libri che mi vergognerei di aver scritto. Senza lingua, senza letteratura. Libri a perdere, che una volta letti si possono buttare nel cassonetto come le lattine di coca cola. Libri di non editori scritti per non lettori, come direbbe un narratore che amo, Claudio Piersanti, da sempre lontano da questo teatrino, il quale disse una volta che l’unica cosa che manca drammaticamente in questo paese sono gli autori, cioè quegli scrittori capaci di visione, di sguardo, quelli che hanno un’idea forte del mondo. Tra i tanti falsificatori, manipolatori di trame, insegnanti di scuole di scrittura creative, non se ne vedono molti all’orizzonte.
*****************
LA DENUNCIA
Il pamphlet di Culicchia, la recensione di Bajani
Il nuovo pamphlet di Giuseppe Culicchia si intitola «E così vorresti fare lo scrittore» (Laterza editore), ed è un’analisi sarcastica di come è cambiata la «filiera del libro» rispetto a un passato neppure troppo lontano. È a partire da esso che Andrea Bajani ha scritto, due giorni fa su Repubblica, un lungo articolo in cui analizza la situazione attuale, alla luce dei danni prodotti dal berlusconismo. Se un tempo l’esigenza fondamentale era quella di assaporare un testo attraverso la lettura, oggi la situazione appare rovesciata: prevale l’esigenza di scrivere, in un panorama inflazionato di libri che nessuno vuole però leggere. Così i libri, da oggetti di culto, si stanno trasformando in periodici dalla vita breve, simili ai giornali e destinati nella gran parte dei casi al macero. Viceversa, gli editori si affannano a proporre scrittori esordienti, senza essere disposti a supportarli in caso di insuccesso o non raggiungimento delle aspettative. Insomma, l’editoria in Italia è diventata una questione di profitto: si scrivono troppi libri, senza più tener conto della qualità, con traduzioni pessime e numerosi refusi. In un mercato bulimico e vorticoso, ad appena due mesi dall’uscita sono considerati già vecchi e superati dalla stampa, e non vengono più recensiti.
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2013/10/2013-10-02-07-51-22/
Copyright ©2024 Diritti Globali unless otherwise noted.