Washington, strage nella base della Marina un uomo fa fuoco sulla folla: dodici morti

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NEW YORK — «Un atto di codardia. Ancora una volta ci troviamo a dover affrontare una strage di americani, feriti e uccisi da armi da fuoco in casa nostra»: così parla Barack Obama poche ore dopo la sparatoria dentro l’edificio 197 nel Navy Yard dove c’è la più grande base operativa della marina militare, a meno di venti minuti dalla Casa Bianca, nella parte sud di Washington: «Non sappiamo ancora con certezza quello che è successo, ma faremo di tutto per scoprirlo e assicurare i colpevoli alla giustizia. Sono stati uccisi patrioti che erano al lavoro per difendere la nostra nazione e che non si aspettavamo di essere in pericolo nei loro uffici».
A sparare è Aaron Alexis, 34 anni, nato a Brooklyn e cresciuto in Texas, che grazie a un recente lavoro da contractor civile entra con un regolare pass nell’edificio. Sono le 8 e 20 quando si affaccia nella caffetteria centrale e apre il fuoco, prima con un fucile d’assalto, poi con due pistole, una da guerra e una semiautomatica: per terra rimangono 12 morti e molti feriti, alcuni in gravi condizioni. Poi prova a scappare ma nella fuga viene raggiunto dalle unità speciali della polizia che lo colpiscono e lo uccidono. La gente corre lungo le scale, scavalca i muri di cinta per mettersi al riparo, uno dei superstiti racconta alla Cnn: «Mi si è presentato davanti quest’uomo armato, ha sparato contro me e i miei colleghi. Ci siamo buttati per terra e i colpi si sono conficcati nel muro alle nostre spalle: spaventoso». Sono le parole dei testimoni a mettere in allarme gli investigatori: «Erano tre», ripetono in molti. Un commando dunque, non il gesto isolato di un folle e così l’allerta sale al massimo livello: chiude l’aeroporto Reagan, una decina si scuole sono evacuate, gli uffici federali e i palazzi del governo messi sotto protezione, l’ammiraglio Jonathan Greenet capo delle operazioni navali, che nella base ha il suo quartier generale viene trasportato al Pentagono, le persone che lavorano qui sono invitate a mettersi al riparo. «Siamo preoccupati che ci possano essere altre persone armate non ancora localizzate» dice il capo della polizia. Sono in azione le forze speciali, le stesse che a Boston diedero la caccia per una notte e un giorno a Dzhokhar Tsarnaev, uno dei due responsabili dell’attacco alla maratona.
L’identificazione dell’attentatore grazie alle impronte digitali esclude la pista internazionale, come conferma anche il sindaco Vincent Gray («Non ci sono elementi per considerarla»), ma non quella interna: i gruppi di estrema destra che odiano Washington e quello che rappresenta. Gli agenti ora dicono che «stanno cercando solo un uomo», un afroamericano tra i 40 e i 50 anni con una divisa militare verde. L’altro sospettato «con un’uniforme kaki, un bianco tra i 30 e i 40 anni» è identificato e risulta estraneo all’agguato. Rimane l’incubo del terrorismo, con l’intelligence, che pochi giorni fa nel ricordare l’11 settembre aveva avvisato del nuovo nemico: i lupi solitari in grado di colpire, come in questo caso, anche obiettivi strategici perché «si muovono senza un’organizzazione alle spalle e per questo sono più difficile da scoprire ». Scende la notte su Washington rimane il rumore degli elicotteri e quello delle sirene che continuano a scuotere le paure degli americani.


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