Walzer: “Dall’11 settembre 2001 ci sono state troppe guerre sbagliate ma il terrore chimico va fermato”

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«OGNI volta che rispunta l’anniversario dell’11 settembre, io dico a me stesso e lo ripeto agli amici: c’è una cosa terribilmente importante. Ed è questa: noi dobbiamo guardare avanti. Molti, invece, rimangono con lo sguardo fisso sul passato. È un errore. Se ad esempio parliamo di un intervento militare in Siria, sbaglia chi s’incaponisce a riproporre una guerra identica all’ultima che abbiamo combattuto. Però, ha torto anche chi s’intestardisce a battersi contro l’ultima guerra. Insomma io invito tutti, me compreso, a vivere nel presente». Michael Walzer, dal suo studio di filosofo all’Università di Princeton, soppesa le difficili scelte che aspettano l’America nel dodicesimo anniversario dell’attacco alle Torri gemelle. Polemista come d’abitudine, i suoi trattati sulle “guerre giuste e ingiuste” hanno fatto accapigliare generazioni. Lui, anche stavolta, non si sottrae.
Professore Walzer, l’America si esprime su un eventuale conflitto proprio dall’attacco chimico a Damasco il 21 agosto e gli attentati terroristici del 2001, questo va rintracciato nella natura delle armi tossiche. I gas velenosi non sono utili in battaglia: sono, piuttosto, uno strumento del terrore che può uccidere civili nelle città. Ne basta il pensiero a terrorizzare la gente. In questo senso, imporre il divieto delle sostanze tossiche è parte di quel che definiamo, ricorrendo a una metafora, la “guerra al terrore”. Però, io non giocherei tanto sui simboli. Certo, dobbiamo ricavare lezioni dal passato, come dalla guerra in Iraq, non necessaria e perciò sbagliata, ma, insisto, noi viviamo nel presente».
E il passato cosa insegna, a suo avviso?
«Se mi guardo alle spalle, la vera lezione la rintraccio molto più indietro nel tempo, nel 1988, quando Saddam Hussein usò le armi chimiche contro i curdi in Iraq. Quella sì, che era una buona occasione per dare una risposta forte e ferma. Se l’avessimo fatto allora, avremmo probabilmente evitato due guerre nel Golfo».
L’11 settembre i giornali europei titolavano “Siamo tutti americani”. Oggi, a eccezione della Francia, il presidente Obama raccoglie pochi consensi per una nuova avventura militare. America ed Europa non si esprimono più all’unisono?
«Io non capisco come mai nella coscienza europea non primeggi l’importanza del divieto delle armi chimiche: è uno dei pochi freni relativamente efficaci al modo in cui si combatte la guerra. È stata proprio la distrazione dei po-litici, sommata alla sete di guadagno di certe ditte, a permettere l’accumulo dell’arsenale tossico in Siria. Russia, Iran, America ed Europa hanno tutti ignorato le restrizioni».
Pesa anche il retaggio di questi dodici anni di guerre? L’Iraq, l’Afghanistan, la Libia?
«È naturale che sia così: l’Iraq e la Libia non hanno portato davvero buoni risultati. Però, la Siria è un caso diverso. Trovo bizzarra l’idea che un conflitto sbagliato in passato debba ostacolarne uno nuovo. Non esistono cause puramente morali, neppure protagonisti puramente morali. Forse quella contro i nazisti fu una guerra puramente morale. Ma nella politica quotidiana bisogna contare su esseri umani fragili, imperfetti. La giusta ritrosia a entrare in guerra non deve impedire di farlo».
Il presidente Obama è un guerriero riluttante, come molti lo descrivono? Un Premio Nobel lacerato, nelle sue stesse parole, da una scelta fra le più difficili della sua presidenza?
«Le ricordo un detto di sant’Agostino: il guerriero dev’essere sempre malinconico. Obama è proprio così: un guerriero malinconico. Ha avuto ragione nel
resistere ai neocon, che premevano per un coinvolgimento più attivo in Siria. Come ha avuto ragione, però, nel ritenere che l’uso dei gas tossici modifichi la questione. Ha dimostrato saggezza nel rivolgersi al Congresso, anche se io ho poca fede in questa accolita di politici, la peggiore che l’America abbia mai vista, con una destra dissennata e altri che sanno poco o niente del mondo».
Lei vede una speranza di pace se la Siria sottoporrà l’arsenale chimico al controllo internazionale?
«Questa sarebbe davvero una magnifica svolta. Non è una soluzione, ma un passo importante. Purché si tratti di un controllo serio. Eppure non vedo granché nel passato dell’Onu per convincermi che riesca in questa impresa. Mi rallegra piuttosto la collaborazione fra Washington e Mosca. Mi sarebbe piaciuto immensamente origliare la conversazione fra Putin e Obama al vertice del G-20 a San Pietroburgo».


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