Vietnam, ultima missione i reduci americani a caccia dei figli perduti

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WASHINGTON. In Vietnam li chiamavano “i figli della polvere”, il pulviscolo di bambini di nessuno lasciati indietro dalla tempesta di sabbia e di sangue che fu la guerra. Per decenni nessuno li volle, ma ora che i padri americani avvicinano il tramonto della vita, che i ricordi diventano rimorsi e la polvere si è depositata, il desiderio di ritrovare le tracce dei figli assale i vecchi soldati.
Sono ricerche spesso impossibili, racconta il New York Times, attraverso le organizzazioni di volontari che accolgono sempre più richieste di uomini ormai vicini ai 70 anni o oltre, assaliti dall’ansia di dare un volto e un nome a chi si lasciarono alle spalle dopo una relazione, anche il semplice incontro di una sera, a Saigon e nel resto del Sud Vietnam. I “figli della polvere” sono decine di migliaia, ma nessuno li ha mai censiti o identificati, nel disprezzo della loro terra natale, dove portavano negli occhi azzurri, nei capelli castani o crespi, il segno inconfondibile della paternità. Figli “bastardi”, “cani randagi”, li chiamavano.
Neppure le loro madri, dopo avere tentato invano di raggiungere i loro padri in America nel 1975 quando Saigon fu “liberata” dai reggimenti del Nord, li volevano.
Ne arrivarono, e furono accolti negli Stati Uniti, 75mila attraverso gli anni e le leggi che finalmente, tredici anni dopo la caduta di Saigon, nel 1988 il Congresso americano passò. Una cifra che dà la misura di quanti fossero, almeno coloro che sopravvissero attraverso orfanotrofi e conventi di suore e non finirono la propria esistenza nei bidoni della spazzatura dove ogni giorno, per i dieci anni della presenza americana in Vietnam del Sud, gli operatori sanitari li raccoglievano.
Ma se l’età, il ricordo, il rimorso stanno scuotendo migliaia di reduci ormai anziani, c’è un elemento in più che sta muovendo la ricerca dei granelli di sabbia, ed è la cognizione che tanti di loro, diventati uomini e donne adulti, vivono negli Stati Uniti. E che il figlio mai conosciuto, la figlia mai vista può avere vissuto nella porta accanto senza mai sapere, o nel ventre delle tante “Little Saigon” presenti in tutte le grandi città.
«Della guerra sono riuscito a dimenticare tutto, ma non la lettera che ricevetti poco dopo essere tornato nel mondo, cioè in Usa» dice al New York Times
l’ex soldato scelto James Copeland. La sua girlfriend, la giovane vietnamita con la quale aveva convissuto per un anno gli aveva scritto di essere incinta e quella creatura era sua. «Molti di noi cercarono di dimenticare pensando che quelle ragazze tentassero soltanto di trovare un modo per scappare dal Vietnam, senza davvero sapere chi fosse il padre dei loro figli. Allora non esistevano gli esami del Dna».
Oggi esistono e non più soltanto la madre, ma anche il padre è “semper certus”.
Il soldato scelto Copeland ha impiegato due anni, ha arruolato le associazioni di Amerasiatici che si sono formate in Usa dopo gli anni ‘80 e ha trovato la figlia, Tiffany, che limava le unghie e piallava i calli in un “salone di bellezza” di Reading, in Pennsylvania, a cento chilometri da casa sua.
Ora racconta di avere trascorso con lei giorni e notti per farsi raccontare la sua vita da bambina “bastarda”, protetta dalla madre dalle angherie e dalla violenze dei coetanei “di sangue puro” e di come avesse finalmente seguito un zio con il permesso di soggiorno negli Usa.
C’è un punto nel quale le vite parallele di padri e figli ignari gli uni degli altri convergono, perché non sono soltanto i vecchi soldati a voler riconoscere che cosa si lasciarono alle spalle, ma i loro figli a voler trovare padri che mai ebbero, per dare un volto alla propria esistenza. Cuong Lu era nato dopo che il padre, un soldato afro-americano, aveva già lasciato Saigon, dopo avere messo incinta una lavandaia. Quando sua madre riuscì a fuggire dal Vietnam con lui, andò a vivere nella Virgin Island, sperando che il bambino con la pelle scura e i capelli crespi potesse integrarsi con i ragazzi di colore in quelle isole. Ma la forma degli occhi tradiva la sua origine e persino la madre lo lasciò solo.
Dopo una vita tra carceri minorili, arresti e detenzioni per spaccio di droga. Lu, ormai quarantenne, si sposò, ebbe figli, con la maturità esplose quella che lui chiama «un’ossessione »: trovare l’uomo che lo aveva fatto venire al mondo. Giorni e notti in Rete, al computer, frugando in ogni possibile sito di veterani e reduci, affidandosi soltanto al un nome che la madre gli aveva fatto, “MacGee”, per scoprire che era scritto in modo diverso, “Magee”. Lo ha trovato, gli ha telefonato, si sono visti, si parlano ogni settimana. Il padre, che ha 73 anni e vive in California soltanto della pensione di Stato, gli ha fatto arrivare a spese proprie la vecchia Toyota usata, che ora usa per andare al lavoro. Un lungo viaggio per una vecchia auto alla ricerca di identità perdute.


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