by Sergio Segio | 5 Settembre 2013 7:26
NEW YORK — Nell’attesa della battaglia vera, il teatro dello scontro più violento rimane Washington, dove gli uomini della Casa Bianca continuano a lavorare per costruire il consenso del Congresso per sostenere l’attacco alla Siria. Ieri Obama ottiene un’altra piccola vittoria: la Commissione Esteri del Senato dà il via libera alla mozione con 10 voti favorevoli contro 7, ma non è un vantaggio brillante, è la conferma che la settimana prossima, come scrive il New York Times, ci sarà una vera e propria resa dei conti. Il testo prevede un intervento mirato e limitato nel tempo: 60 giorni, portabili a 90 solo con un preavviso e solo se ci sono «buone ragioni». Niente truppe a terra e un costante aggiornamento da parte del Pentagono sugli sviluppi del blitz.
Un “sì” che arriva dopo una giornata agitata, scossa dalle dichiarazioni di John McCain che prima annuncia la sua contrarietà all’operazione e poi a sorpresa ricambia idea dando il suo appoggio. La svolta per essere riuscito a strappare un successo personale, l’inserimento della frase «gli Usa puntano a cambiare le dinamiche della battaglia in Siria », cosa sino ad ora sempre negata da Obama. Altri tre big del suo partito scendono in campo a sfidare apertamente il presidente, sono Marc Rubio, Ted Cruz e Rand Paul.
Questi ultimi due sono i rappresentanti dell’ala isolazionista: «Dove sta la Siria? Siamo sicuri che là ci sono nostri interessi da difendere?». I sondaggi tra la base conservatrice non lasciano dubbi: l’80% degli elettori è contrario all’intervento. E per questo molti senatori e deputati sono in bilico tra obbedienza alla linea e rispetto della volontà degli elettori. Uno di loro racconta: «Ho fatto un esperimento via twitter, il 95% dei miei mi ha detto di votare no: mi sembra un dato di cui è difficile tenere conto».
Il Washington Post pubblica una tabella eloquente: al Senato i sì sono 20, 5 i no, 15 quelli che tendono al no e ben 60, la maggioranza, ancora indecisi. Stessi equilibri alla Camera: 17 sì, 46 no, 84 verso il no, e 98 in bilico. Quello che più inquieta la Casa Bianca è la saldatura dell’ala libertaria dei repubblicani con i liberal democratici, la stessa alleanza entrata in azione nella vicenda Nsa. Per evitare «la catastrofe», come la chiamano i collaboratori più stretti, continua il lavoro di John Kerry che alla Camera si trova davanti contestatori con le mani dipinte di rosso: «Alcune persone mi hanno detto che non possiamo andare in guerra. Voglio essere chiaro: non ci stiamo preparando ad un altro conflitto». Con pazienza Kerry torna poi a spiegare le sue ragioni, incalzato dai dubbi: «Ma come faremo a controllare l’escalation?», gli chiede Ed Royce, un esperto di politica estera. Rompe il silenzio Hillary Clinton, che si schiera con il presidente: «Lo appoggia in pieno», dice un suo collaboratore. Un’arma in più. O almeno così spera Obama.
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