Uno sfruttamento da mattatoio

by Sergio Segio | 25 Settembre 2013 6:42

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Mattatoio n. 5 è il titolo evocativo che Kurt Vonnegut nel 1969 scelse per rappresentare il cinismo della guerra, utilizzandolo come teatro rappresentativo per il massacro di Dresda del febbraio 1945. Il macello come metonimia, flusso di ricorsività semantiche che hanno nel sangue l’operatore scenico e nella mercificazione del corpo il comune denominatore, diventa così una sorta di Panopticon sulla violenza. Non a caso, il romanzo di Vonnegut, transrealista ante-litteram, utilizzava un secondo titolo, La crociata dei bambini, che alludeva non alla famosa crociata del 1213 bensì alla concezione stessa della guerra che vede gli anziani decidere di mandare i bambini a morire al posto loro. Il teatro di macellazione si snoda in piani di differente orrore: l’anticamera che porta in collisione l’ingenua fiducia del sacrificando con la realtà di ciò che lo attende, la camera della morte che esplicita la violenza istantanea e sempre singolare dell’uccisione dell’inerme, la catena di smontaggio che non solo evidenzia la fragilità del corpo ma altresì la pornografia dell’intento.
Si tratta di un leitmotiv che ritroviamo in Cloud Atlas nel terribile destino degli ancillari «artifici», nel ritiro dei replicanti in Blade Runner, nelle fiere della carne nel film AI di Steven Spielberg. Il macello, come metonimia della violenza contro l’inerme, non ricorre solo nella fantascienza, ma diventa espressione nel sintagma «macelleria messicana» – per esempio per riferirsi ai tristi episodi del G8 di Genova – e ha una nutrita tradizione letteraria. Nel saggio Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio (296 pp, euro 18,00, Elèuthera) di Massimo Filippi e Filippo Trasatti, uno spazio notevole viene riservato proprio al macello come eterotopia, per usare il concetto di Foucault, e come topos narrativo capace di disvelare le varie forme dello sfruttamento. In altre parole, l’eclatanza del mattatoio fa emergere tutte quelle strutture di appropriazione del corpo dell’altro che vengono abilmente camuffate da operazioni edulcoranti o di criptazione. Gli autori partono dal romanzo La giungla di Upton Sinclair che opera una sottile ma inesorabile sovrapposizione tra avidità e mercificazione del corpo, ove il grande macellaio diviene il simbolo stesso del capitalismo. Torniamo allora a quello che potrebbe essere assunto a simbolo dell’intersezione tra i due termini, l’Union Stock Yards di Chicago, inaugurato il giorno di Natale del 1865, ripreso da Thomas Pynchon nel romanzo Contro il giorno, dove il macello assurge al ruolo di cattedrale del capitalismo. Non a caso Henry Ford prenderà a modello il mattatoio nella sua articolata filiera di dissezione del corpo per trasformarlo in specularità nella catena di montaggio, volano dell’esubero produttivo e della trasformazione robotica del lavoratore.
Un rapporto stretto lega lo sfruttamento dell’animale reificato a quello del prossimo umano, giacché è l’operatore segregativo – che definisce la sua agibilità nella cannibalizzazione del prossimo – a dare fondamento al processo e non presunti caratteri di inferiorità del soggetto sfruttato. Già il filosofo Giorgio Agamben nel libro L’aperto. L’uomo e l’animale (Bollati Boringhieri 2002) aveva sottolineato come il modo di leggere l’eterospecifico non sia neutro, ma dia luogo a processi di emarginazione nei confronti dell’alterità umana. Il concetto di «animale», privo di valore tassonomico quale categoria oppositiva all’essere umano, si presta a costituire una macchina antropologica utile per ogni forma di emarginazione. Da questo si rende evidente come non sia possibile disconnettere il modello di sfruttamento degli altri-animali dagli operatori di segregazione umana.
La zooantropologia peraltro ha posto l’accento anche sul processo inverso, vale a dire come l’emergenza identitaria rafforzi lo strutturarsi di categorizzazioni gerarchiche. Il saggio di Filippi e Trasatti coglie bene questa ricorsività, ponendo il focus sui campi d’intersezione tra i diversi domini segregativi. Il libro si sofferma sui processi di esautorazione del carattere di soggettività: quando e come il corpo dell’alterità venga reso disponibile in forma di oggetto. Occorre spogliarlo di un suo contesto, eradicarlo – come un leone dentro un zoo o un elefante in un circo – per poi sottoporlo a un regime di dominio fino a fargli perdere titolarità sul corpo.
Ma per comprenderne l’intima struttura occorre visitare questi luoghi paradigmatici – oltre al macello, il carcere e il laboratorio – evitando di lasciarsi forviare dall’ipocrisia che si nasconde dietro il velo del welfare o del tecnicismo, operazioni di cosmesi dello sfruttamento. I lager sono sempre accompagnati da apparati algidi di razionalità e da rituali epurativi che, come liturgie di organizzazione, cercano di nascondere il meccanismo emarginativo. Smascherare e disarmare l’operatore discriminativo è il cardine intorno a cui si snoda il testo che più volte ci riporta sulla strada di quel divenire comune che non può essere ridotto a un rapporto soggetto-oggetto. Se non viene messo in discussione nel suo operare ma semplicemente nel suo operato contingente, tale discriminatore può spostare l’area applicativa e traghettare su altri obiettivi. In tal senso, i crimini in tempo di pace non sono altro che il sottobosco che prepara quelli eclatanti che si manifestano, in tutto il loro orrore, in tempo di guerra.

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