Un altro Iran

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TEHERAN. «In questi giorni invece dell’uranio cerchiamo di arricchire la speranza, ma ancora non sappiamo né in quale percentuale né per quanto tempo potremo farlo», scherza Amin, uno studente d’ingegneria che riassume così i sentimenti dei suoi coetanei universitari mentre aspettano di conoscere i risultati degli esami. Dal giorno dell’investitura di Hassan Rohani a settimo presidente della Repubblica islamica a Teheran si respira un’aria diversa. La capitale è in fibrillazione. I nuovi toni, i nuovi canali di comunicazione aperti dal presidente e dai membri del suo governo rincuorano i giovani. Dall’inizio di settembre tutti i ministri hanno aperto una pagina su Facebook o Twitter o altri social media. Rohani ha subito voluto dare prova di quella trasparenza che aveva promesso durante la campagna elettorale e evidentemente il presidente guarda ai social media anche come mezzo per promuovere le proprie politiche.

L’uso di Facebook e di Twitter ha registrato un’impennata dopo la sua elezione. Cominciano però a farsi sentire anche i malumori degli ultra conservatori che aspettando Rohani al varco del primo fallimento per levare alta la loro voce. Il primo ad attaccare è stato come d’abitudine il direttore  dell’ultraconservatore Keyhan, Shariatmadari, dopo di ché il regime ha incaricato il vicepresidente Aminzadeh, responsabile per gli affari legali, «di verificare se l’uso dei social media da parte dei ministri sia legale». In realtà Facebook e Twitter sarebbero vietati in Iran, ma gli iraniani aggirano il divieto scaricando dei filtri o facendoseli installare direttamente dal tecnico del negozio dove comprano i loro laptop. Secondo Said Leylaz, un economista che ha passato duri momenti dopo le elezioni del 2009 ma che dopo l’elezione di Rohani guarda di nuovo al futuro dell’Iran con grande ottimismo, «l’èra dei filtri è finita». Con buona pace degli ultrà.
Nella Repubblica islamica, che come si sa è un sistema controllato da vecchi ayatollah sotto la guida del leader supremo, l’ultima parola spetta costituzionalmente a Khamenei, ma il presidente può mettere in moto diverse cose e Rohani dimostra di volerlo fare. Ultima in ordine di tempo: il suo governo si arricchisce di un’altra presenza femminile, quella Masoumeh Ebtekar, nominata ieri vice presidente con la delega della protezione ambientale. È la seconda donna ad entrare nell’esecutivo dopo Elham Aminzadeh, vice presidente per gli affari legali.
Amin e i suoi compagni di corso considerano di buon auspicio gli auguri di happy Rosh Hashana, buon capodanno, fatti su twitter «a tutti gli ebrei» dallo stesso Rohani: «Sono la prova di una nazione sovrana ». Poi il nuovo ministro degli Esteri Javad Zarif ha affermato di non negare l’Olocausto, e che quella espressa in passato da Ahmadinejad «era una posizione personale ». La retorica anti-occidentale e antisemita di Ahmadinejad aveva messi in imbarazzo questi giovani. Il 65 per cento degli iraniani ha meno di trent’anni. Ragazzi che non si sentono per niente diversi dai loro coetanei occidentali: ascoltano la stessa musica, frequentano palestre dove si balla la zumba, guardano i film di Cannes e Venezia. Mai però in pubblico. La libertà esiste solo dietro la porta di casa, troppo grande è finora la differenza tra le prescrizioni della religione e dello Stato, che qui sono tutt’uno, e gli stili di vita privati. «Gli iraniani sono questi», mi dice l’amica che mi accompagna nel nuovo parco della capitale, Ab oatash (acqua e fuoco), frequentato da famigliole che fanno picnic sul prato mentre i bambini si divertono a correre sotto i getti d’acqua di un laghetto che, mi spiegano, è esattamente uguale a uno che c’è davanti a un teatro londinese.
L’Iran di oggi assomiglia molto poco a quello degli anni di Khomeini. Ma la narrazione dei pasdaran col kalashnikov e delle donne in chador che davano il via a un’èra di fondamentalismo non è mai cambiata, mentre è rimasta incompresa una delle ragioni principali che spinse gli iraniani alla rivoluzione, il desiderio di liberarsi dalla dominazione straniera. «Ahmadinejad ha reso il compito facile a chi voleva mostrare l’Iran come un regime di fanatici irresponsabili, guidato da un nuovo Hitler, al quale perciò non sono applicabili le regole che valgono per gli altri Stati della comunità internazionale », conferma Hossein, un bazarì che vende tessuti nel grande bazar di Teheran. L’immagine che gli iraniani hanno di sé è invece quella di una nazione che si nutre degli scambi con il resto del mondo. È un bisogno collettivo, quello di un popolo che si sente di discendere da una straordinaria e antichissima civiltà. Ma la civiltà ha bisogno di scambi.
Al bazar c’è il solito via vai, una signora esamina le scarpe: «sono venuta per paragonare i prezzi», mi dice. «Ormai non si riesce a comprare nulla, ed è fortunato chi come me ha abbastanza per dar da mangiare alla famiglia». Le vendite sono calate del 70 per cento negli ultimi mesi, conferma Hossein. L’agenzia studentesca Isna ha pubblicato i “70 punti” sui quali dovrà misurarsi Rohani e l’economia è al primo posto. Ma dovrà affrontare anche il tema dei diritti, sul quale le resistenze dei fondamentalisti sono fortissime: i detenuti politici nelle carceri, i potenti apparati di sicurezza nelle università, la censura opprimente. Ha cominciato da Internet.
«Per risollevare l’economia, il presidente sa che deve migliorare i rapporti con l’Occidente, soprattutto con gli Stati Uniti, e da ex negoziatore del dossier nucleare sa benissimo che un alleggerimento delle sanzioni sarà possibile solo se l’Iran fa compromessi veri». Iran e Stati Uniti condividono una storia di percezioni sbagliate e di occasioni mancate. «Rohani ha annunciato che l’Iran è pronto ad agire per rimuovere le preoccupazioni dell’Occidente, ed è la prima volta» sottolinea Leylaz. «Sono pronto a colloqui diretti con gli Stati Uniti — ha detto infatti Rohani — se non c’è un’agenda nascosta».
L’agenda nascosta americana è stata finora quella di voler rovesciare il regime, pur affermando di volerne cambiare solo il programma nucleare. Per decenni gli Usa si sono opposti a qualsiasi processo nel Medio Oriente che tenesse in conto gli interessi iraniani. Ora forse le cose stanno cambiando, da entrambe le parti. Forse già a New York, a fine settembre, si vedranno i primi sviluppi. La responsabilità dei negoziati sul nucleare è stata trasferita al ministro degli Esteri Zarif, che ha ribadito di essere pronto a «discussioni serie», pur ribadendo il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio per la produzione di elettricità o per fini medici.
Se la Repubblica islamica ha resistito per 34 anni a tutte le scosse, è perché ha potuto assorbirle grazie al fatto di avere al suo interno tante porte e finestre, scale corridoi e scantinati, ci dice un diplomatico iraniano che è tornato di recente a Teheran dopo diversi anni di missione all’estero. «È in questi luoghi che è ricominciato il lavoro di ricostruzione dopo che la protesta nelle strade nel 2009 era stata messa a tacere con la violenza. Il regime è una macchina che impara».
Nel gruppetto di studenti che aspettano i risultati dell’esame la maggioranza, nonostante l’esperienza del 2009, era andata a votare. «Anche il voto è un esercizio», dice una ragazza. «È come al pianoforte: quando hai una partitura nuova fai tanti errori, ma pian piano s’impara». Ottimisti senza riserve sono i diciotto — ventenni. Nel centro culturale di Khavaran, in un quartiere del sud molto popolare e impoverito, alcuni attori hanno messo in scena uno spettacolo comico. Per avere il permesso dalle autorità ci hanno messo un anno: forse da ora in poi non ci vorrà più tanto tempo. Il tassista che mi riporta all’albergo viene da Bojnourd, nel nord del Khorasan, dove hanno chiuso tante fabbriche e pur avendo un diploma un lavoro non l’ha trovato. La mattina lavora anche come operaio edile così la sera può dormire nell’edificio che stanno costruendo. Lui non è così ottimista, dice, cita due proverbi iraniani. Il primo è: cambia la soma ma l’asino resta lo stesso. E il secondo: non è mai andato via uno che abbia lasciato il posto a uno migliore.


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