by Sergio Segio | 1 Settembre 2013 7:16
Cercherà così di creare consenso attorno ad un’azione della cui opportunità lui stesso non sembra del tutto convinto. E alla cui eventualità il pubblico americano ha reagito in modo molto tiepido.
Diciamo la verità: Obama ha davanti a sé in Siria una serie di pessime opzioni. 1. Un pieno intervento militare con l’intento di rovesciare il regime di Bashar al-Assad. 2. Un intervento limitato e inconcludente con conseguenze imprevedibili 3. Non fare nulla.
Obama sembra convinto che la seconda opzione sia la meno peggio. Ma la logica sottesa a questa scelta sembra una logica negativa: non si può non fare qualcosa. Anziché avere un’idea chiara su cosa si vuole fare e su ciò che si vuole ottenere con un attacco militare che potrebbe aggiungere morti civili a questa guerra e avere conseguenze militari e politiche imprevedibili.
Curiosamente l’opinione pubblica americana – disincantata da dieci anni di esperienza in Iraq e dodici in Afghanistan – è molto meno entusiasta della scelta militare.
Spiegando le ragioni degli USA, il ministro degli esteri americano, John Kerry, ha fatto di tutto per distinguere un possibile intervento in Siria dal caso Iraq. Ma i suoi sforzi si sono limitati soprattutto a dimostrare che le prove dell’uso delle armi chimiche da parte del governo siriano sono solidissime e presentate al pubblico in modo trasparente, a differenza delle prove truccate dell’esistenza delle armi di distruzione di massa in Iraq. E Obama, nel suo discorso di ieri, ha voluto coinvolgere il Congresso nel processo decisionale per attenuare la sensazione di una decisione imposta al Paese.
Ma i ragionamenti di fondo per giustificare l’intervento – che sono soprattutto morali – sono molto simili da quelli usati per l’intervento in Iraq. Ormai da vent’anni – dai tempi dal mancato intervento in Rwanda e degli attacchi aerei contro la Serbia per far cessare la pulizia etnica – si è sviluppato un nuovo filone nella politica estera – quella dei cosiddetti “falchi-umanitari.” Ovvero la convinzione che la forza americana, se mirata bene, possa essere una grande forza del bene.
Ecco perché quasi tutte le giustificazioni che sentiamo sono di tipo morale. «La storia ci giudicherebbe aspramente se chiudessimo l’occhio davanti all’uso indiscriminato delle armi di distruzione di massa da parte di un dittatore spietato, contro ogni senso di decenza», ha detto Kerry.
Roger Cohen, commentatore del New York Times, pur di origine inglese, ha scritto: «La credibilità degli Usa, già erosa, è un bene prezioso. Perderla del tutto ci porterebbe verso un mondo molto pericoloso
».
Ciò che mi preoccupa è che le ragioni che sentiamo sono tutte esterne alla situazione siriana. Ho paura che il governo americano agirà solo per mantenere la propria credibilità presso gli altri Paesi, o, peggio, come risposta a pressioni di politica interna (i repubblicani cercano di dipingere
Obama come un indeciso pavido, tipo Jimmy Carter).
Sentendo Kerry si ha quasi l’impressione che gli Usa sentano il bisogno di agire per ragioni identitarie. «Questo ci importa – ha detto Kerry – per determinare chi siamo, per la nostra credibilità nel mondo. Qui, è in ballo Hezbollah, è in ballo la Corea del Nord, ogni gruppo terroristico».
Sentiamo di tutto tranne quello che dovrebbe pesare di più nel processo decisionale: avrà un effetto positivo in Siria?
L’opinione pubblica americana sente molto meno le sirene dell’idealismo dei falchiumanitari e i ragionamenti identitari. Ed è curioso che il pubblico americano dimentichi molto meno l’esperienza irachena rispetto ai nostri politici.
È facile manipolare l’opinione pubblica quando non sa niente. Ma quando ha un’esperienza consolidata è molto difficile smuoverla dalle proprie certezze. Così George Bush ha avuto gioco facile convincendo gli americani che invadere l’Iraq era una priorità assoluta. Ma dopo due o tre anni di caos totale, l’opinione pubblica si è convinta in massa che quella guerra fosse un enorme errore e da lì non si è più mossa.
Non è molto sofisticata, ma l’opinione pubblica americana ha capito alcune cose essenziali: questi Paesi sono molto complessi e gli interventi militari hanno effetti imprevedibili e spesso assai poco desiderabili. In Afghanistan abbiamo armato i mujahidin per combattere i russi e sono diventati Osama bin Laden e Al Qaeda. Abbiamo cacciato i talebani e dopo dodici anni di sangue trattiamo con i talebani. Abbiamo rovesciato Saddam e abbiamo creato Al Qaeda in Mesopotamia. E in Siria la miscela di etnie e religioni è forse ancora complessa che in Iraq e in Afghanistan.
«Il nostro problema principale è l’ignoranza, siamo piuttosto ignoranti per quanto riguarda la Siria», ha detto l’exambasciatore americano in Siria Ryan C. Crocker in un’intervista al New York Times.
Dopo quasi quindici di guerra e spese militari costosissime, si sarebbe portati a pensare che abbiamo imparato un po’ di umiltà. In politica estera, come in medicina: prima di tutto, non fare del male. Siamo sicuri che il nostro intervento produrrà un risultato positivo? In Libia era piuttosto evidente che con un impegno militare non grande avremmo fatto cadere Gheddafi – e, nonostante la confusione che ne è seguita, rimane un bene per quel Paese. Nel caso siriano la situazione è ben più complessa: l’appoggio ad Assad è molto radicato e non è chiaro che quelli che verranno dopo saranno più democratici.
Preoccupa molto che l’amministrazione Obama non abbia articolato un chiaro obiettivo strategico in Siria. Vogliamo rovesciare Assad? Siamo sicuri che i suoi avversari siano meglio di lui? Se l’attacco non produce il risultato desiderato e Assad non cambia il suo comportamento, siamo pronti ad altre azioni? Quali? Speriamo almeno che nel dibattito al Congresso ci si ponga queste domande e si cominci a rispondere.
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