by Sergio Segio | 1 Settembre 2013 15:13
MILANO – Non basta un segnale positivo perché sia primavera nell’economia più dinamica del mondo; così la fabbrica globale si prepara a tagliare la propria capacità produttiva, per non incorrere in problemi maggiori. Si parla della Cina, dalla quale arrivano indicazioni macroeconomiche positive dopo un periodo di grandi timori, nel quale si sono sommate le preoccupazioni per una crisi di liquidità all’interno del sistema bancario e quelle per un eccessivo rallentamento del ritmo di crescita (se così si può dire per un’economia che comunque crescerà sopra il +7%).
Dopo un trimestre difficile, l’indice Pmi rilevato in base alle sensazioni dei direttori degli acquisti e che segna il termometro del settore manifatturiero, è salito sopra le attese a 51 punti, ai massimi degli ultimi 16 mesi. Un dato sopra quota 50 punti indica una fase di espansione economica, mentre stare sotto quell’asticella significa andare incontro alla recessione. Secondo alcuni analisti si tratta di una prima risposta alle politiche varate dall’esecutivo cinese a supporto della crescita. Misure incentrate sul supporto alle infrastrutture, alle energie rinnovabili e che mirano anche limitare i rischi del settore finanziario. Pechino punta così a confermare l’obiettivo di crescita del Pil del 7,5% nel 2013, in calo comunque rispetto agli aumenti degli scorsi anni.
Nonostante questa ventata di ottimismo, resta quindi il problema di base di una sovraccapacità per il sistema produttivo del colosso asiatico. Molte fabbriche, riporta l’agenzia Xinhua, funzionano ad oggi solo al 70 per cento del loro potenziale e per questo, in migliaia, dovranno chiudere entro la fine di settembre per ordine del governo. Si tratta di ben 1294 impianti, in 19 settori, dal carbone all’acciaio – destinate a essere smantellate, per non mettere a rischio la stabilità della seconda economia del mondo. La sovraccapacità produttiva – assieme all’eccessivo indebitamento di famiglie, imprese e amministrazioni locali – è la vera incognita che grava sul futuro della Cina e a Pechino la politica ha deciso di non far più finta di niente. Nell’ultima sessione del Parlamento, il Congresso del Popolo, i delegati si sono scagliati contro quelle amministrazioni che “ignorano la sovraccapacità di alcune industre e ne approvano i progetti di espansione”. Con conseguente aumento dell’indebitamento delle amministrazioni locali, la cui reale entità è in via di valutazione (e i risultati si preannunciano preoccupanti).
Nel luglio scorso il ministero dell’Industria ha pubblicato un elenco di imprese che dovranno eliminare impianti ormai obsoleti e produttivamente inutili. Ad esempio, l’industria del carbone ha accresciuto fra il 2001 e il 2011 la propria capacità produttiva di 579 milioni di tonnellate, ma le vendite sono salite solo di 273 milioni. Quanto all’industria dell’acciaio, il debito cumulato delle 86 principali compagnie ammontava a fine giugno a più di 3 mila miliardi di yuan (circa 370 miliardi di euro) che sono costati al settore 40,6 miliardi di yuan in interessi nel primo semestre a fronte di profitti per 2,2 miliardi. Non si tratta di aziende ‘decotte’, però, visto che molte di queste continuano a registrare una crescita di fatturato e profitti. Ma verranno sacrificate in nome del “bene” di tutto l’ex Celeste Impero.
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