by Sergio Segio | 10 Settembre 2013 5:22
ROMA — Come nel gioco dell’oca si è tornati al punto di partenza, che poi è anche il punto di arrivo: se è vero che sul «caso Berlusconi» si decidono i destini del governo, allora o si trova un compromesso tra Pd e Pdl o le larghe intese sono destinate a saltare. E un compromesso si era trovato — almeno così sembrava — prima che ieri pomeriggio si riunisse la giunta di Palazzo Madama, chiamata a decidere sulle sorti politiche del Cavaliere. Una mediazione faticosa, frutto di un bizantinismo politico, che avrebbe comunque consentito ai partiti «alleati» di mantenere le rispettive posizioni senza veder danneggiata la propria immagine. Insomma, nessuno avrebbe perso la faccia e Letta (Enrico) non avrebbe perso Palazzo Chigi.
L’intesa prevedeva che i senatori del Pd avrebbero votato per la decadenza di Berlusconi, rimettendo tuttavia alla valutazione dell’Aula la decisione finale sulle pregiudiziali presentate dal centrodestra sulla legge Severino. Il voto della giunta sarebbe stato quindi «sub iudice» e avrebbe garantito al Cavaliere di giocarsi davanti all’Assemblea di Palazzo Madama le ultime carte per ottenere il ricorso alla Consulta o alla Corte di giustizia europea. In questo modo, secondo i calcoli dei mediatori, si sarebbe arrivati a gennaio, superando la finestra elettorale d’autunno ma lasciando aperta quella di marzo, se la mission di Berlusconi fosse fallita. E questo andava bene tanto al Pdl quanto al Pd.
Ecco cosa prevedeva il patto, che invece è subito saltato in giunta. E lo stupore del Cavaliere per l’accelerazione dei Democratici è stato di gran lunga superiore all’ira, segno che il leader del centrodestra proprio non se l’aspettava. Lo s’intuisce dal modo in cui ha reagito a caldo: «Non capisco, proprio non capisco. Si vede che sotto il palco di Genova alla festa dell’Unità, nel Pd si sono messi d’accordo per far saltare Letta». E chissà se anche il premier è rimasto stupito dalla mossa dei compagni del suo partito, di certo — viste le premesse in giunta — non avrebbe pensato di presentarsi oggi a Frascati insieme ad Alfano, alla summer school organizzata dalla fondazione Magna Carta del ministro Quagliariello.
Non è dato sapere se il programma della visita verrà cambiato, sicuramente è mutato il clima attorno al governo, dove si respira aria di crisi: gli esponenti del Pdl che siedono nell’esecutivo ipotizzano possa aprirsi già domani, quando è prevista la riunione dei gruppi parlamentari con Berlusconi, convinto che siano «quelli del Pd a puntare alla fine delle larghe intese». A meno che non sia realistico lo scenario prospettato da autorevoli esponenti dello stato maggiore democratico, secondo i quali il voto in giunta al Senato porterebbe inevitabilmente alle dimissioni dei ministri di centrodestra dal governo: caduto Letta, però, Napolitano lo reincaricherebbe e a quel punto sarebbe proprio il Cavaliere a dare il suo assenso per la formazione di un altro esecutivo di larghe intese, incastrando ancora il Pd.
Uno scenario che sta a metà tra il wishful thinking e una pericolosa mano di poker. Anche perché è vero che, dal punto di vista giudiziario, la crisi di governo non cambia nulla per le sorti personali di Berlusconi. Così come è vero che dal punto di vista politico, la crisi era e resta l’ultima carta per il capo del centrodestra: si tratterebbe di un colpo solo, dagli effetti devastanti, a cui non potrebbero però seguirne altri. E non c’è dubbio che Berlusconi, ancora domenica sera, sostenesse che la crisi «va scongiurata», e non solo perché avrebbero fatto breccia gli appelli dei leader del Ppe che l’avevano chiamato: «Mi conviene buttar giù il governo? Mi scaricherebbero addosso la responsabilità dello spread e quant’altro».
Però lo stesso capo del centrodestra poneva un limite al gioco, una sorta di punto di non ritorno oltre il quale riteneva di non poter andare: «Se i Democratici rispondono ai loro elettori, anche io devo rispondere ai miei. E allora, se devo trattare con Napolitano e poi devo trattare con il Pd, e tutti si comportano allo stesso modo, non è che posso andare avanti con una mediazione infinita, altrimenti perdo il rapporto con quanti mi votano. E io non posso farlo». Non immaginava la piega che ieri avrebbero preso gli eventi, almeno non erano state queste le rassicurazioni, quel «minimo di tutela» che aveva chiesto e che — sostiene — gli era stato garantito. E ora è pronto a intervenire in giunta per far valere le proprie ragioni, sapendo che è una corsa contro il tempo e controvento. Convinto che «sotto il palco di Genova alla festa dell’Unità», il sinedrio del Pd si è messo d’accordo per «far saltare la testa di Letta». E anche la sua.
Francesco Verderami
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