Quei bambini d’Etiopia salvati dallo smartphone

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KONSO (Etiopia) A un’ora di aereo e un altro paio di jeep da Addis Abeba, qui a sud, il miracoloso aumento del Pil etiopico non si vede già più. Questa, verrebbe da pensare, è l’Africa di sempre, fatta di grandi cieli, villaggi, capanne, giornate di cammino e pesi enormi portati sulla schiena, tutti affidati alle donne. Eppure non lo è. Le strade migliorano quasi a vista d’occhio, le comunicazioni si accelerano, le motociclette made in India aspettano lustre compratori, internet fa capolino nei capoluoghi e in ogni tasca, nelle pieghe di ogni sottana, c’è un telefonino.
Eppure lo è. Con una crescita media di oltre il 10 per cento all’anno, seconda alla sola Nigeria per numero di abitanti, l’Etiopia è oggi uno dei miracoli economici africani, un Paese-boom, un Paese- cantiere lanciato in una corsa poderosa alla costruzione di grandi infrastrutture, proiettato verso l’avvenire. Ma nelle lontane campagne i suoi bambini continuano a morire. Troppo. Settantacinque ogni mille nati prima di compiere un anno di età (dati Onu; in Italia: tre). Quasi il 10 per cento prima di compierne cinque. Oltre il 10 in questa regione del sud: 11,6, secondo le più recenti statistiche governative.
Così gira il mondo del secolo nuovo: l’Etiopia cresce dieci volte più in fretta del nostro Paese, che anzi al momento non cresce affatto, i suoi neonati però muoiono 25 volte di più. Eppure gira vorticosamente, il mondo: nei villaggi del Konso, dove non vedi macchine, ma solo somari, squillano gli smartphone, e i giovani che possono permettersi una radio ascoltano la stessa musica che si sente su Mtv. È un mondo sincrono, perfettamente contemporaneo, e per questo le sue diseguaglianze, il baratro che separa le opportunità di vita a Nord e a Sud, appaiono tanto più ingiuste.
Anche queste terribili statistiche sulla mortalità infantile nascondono un paradosso. Contrariamente a quello che appare, sono infatti i numeri di uno straordinario progresso: il bilancio è diminuito di oltre il 40 per cento nell’ultimo quindicennio. I bambini etiopici muoiono ancora troppo, ma molto, molto meno di prima. Siamo venuti quaggiù a cercare il segreto di questo successo. E a scoprire che di segreti non ce n’è: ci sono solo uomini e donne – donne, soprattutto – a cui è stata indicata una strada per migliorare la propria sorte, e che sono determinate a percorrerla. Geloya Denote ha fatto per tutta la vita la levatrice nel villaggio di Busso, popolazione 3.967 abitanti. Alla domanda su quale sia la sua età risponde con una grande risata, seguita da lunga discussione. Ci si accorda per una settantina d’anni, più precisa non sa essere. Ha avuto sette figli, di cui quattro sono vivi, e per ben due volte parti gemellari. Fu proprio in quelle occasioni, osservando la levatrice aiutarla nel lungo travaglio, che a sua volta imparò. Quanti bambini ha fatto nascere non lo sa dire. Soppiantata adesso da un’infermiera professionale, con le partorienti che non la mandano più a chiamare, bensì si dirigono al piccolo ambulatorio ai margini del villaggio, mi aspettavo che Geloya fosse una nemica della politica sanitaria governativa. Invece è una profetessa entusiasta dei tempi nuovi. «Nessuna donna al villaggio partorisce più sotto un albero, o in mezzo ai campi. Impedirlo è il mio compito. Ora lo fanno in un ambiente pulito e protetto». Ma così non ha perso un reddito? Prima riceveva offerte, compensi… «Ma no, non ho mai ricevuto soldi per quello che facevo. Piuttosto venivo accolta come una nonna. E questo non è cambiato». Geloya è sempre di casa in ogni capanna, c’è sempre da mangiare e da dormire per lei. Non fa più partorire, ma va a trovare le donne incinte, spiega loro i vantaggi di un buon controllo medico e di un’educazione sanitaria di base per accudire i neonati. «Prima vivevamo nel buio», riassume. «Adesso siamo nella luce».
Ci sono sempre donne in attesa davanti agli ambulatori di villaggio. Le loro storie di madri sono dei bollettini di guerra, una guerra per la vita. Kassawa, nove parti, quattro figli persi. Engussa, otto parti, tre figli persi. Okata, undici parti, sette figli persi. E così via, pagina dopo pagina di taccuino. Le cose vanno meglio adesso, nessuna partorisce più nella sporco della capanna, o sulla nuda terra, ma questo aiuterà soprattutto le loro figlie, perché la loro battaglia di madri è già combattuta. Il lavoro capillare che sta cambiando il destino di queste donne è frutto della politica governativa e del sostegno di Save the Children, associazione di fama mondiale che si batte per i diritti dei bambini. Save the Children ci mette molti soldi e nessuna bandiera. Dà appoggio, mezzi, farmaci, ma i protagonisti della rivoluzione silenziosa sono le comunità di villaggio. Adesso accade perfino che quando un parto difficile si annuncia nottetempo, squilli da qualche parte un cellulare e dal capoluogo parta un’ambulanza, e la madre non debba più partorire stremata sul ciglio della strada, mentre cerca soccorso a piedi. Per favore non dite più che i telefonini sono uno strazio, una dipendenza, un fastidio.


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