Quattro condanne per lo stupro che ha cambiato volto all’India

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NEW DELHI — Il violentatore seriale la segue per giorni. Poi all’improvviso si introduce in casa sua mentre è sola e tenta di violentarla sotto la minaccia di un coltello. Ma in qualche modo la ragazza riesce a sopraffarlo e a immobilizzarlo. Ora, con l’aiuto delle due coinquiline, deve decidere che cosa fare di lui. Ammazzarlo e seppellirlo in giardino? O chiamare la polizia, di cui però tutti conoscono l’inefficienza e l’insensibilità, con il rischio che il criminale venga rilasciato subito?
È questa la trama di Kill the Rapist ?(Ammazzare il violentatore?), un nuovo thriller di Bollywood che punta a rilanciare il dibattito e incoraggiare le donne indiane a denunciare le violenze sessuali, e vuole ammonire i potenziali stupratori facendoli «tremare di paura al solo pensiero di perpetrare una violenza sessuale», come recita la pagina Facebook del film.
Un film controverso? Certo. Nasce dalla crescente consapevolezza che va diffondendosi in India sulla violenza contro le donne, dal giorno dello stupro di gruppo di cui fu vittima una studentessa di 23 anni su un bus lo scorso dicembre a Delhi. La ragazza morì dopo due settimane per le lesioni riportate. «Come la maggior parte degli indiani, anch’io mi ero assuefatto a sentire notizie di stupri e altre violenze contro le donne. Le leggevo sui giornali, giravo la pagina e dimenticavo» dice Siddhartha Jain, il produttore 39enne di Kill the Rapist? «Ma il caso della studentessa mi ha profondamente sconvolto. Non volevo che fosse una storia come tante altre. Il mio film, che uscirà nelle sale nell’anniversario dello stupro, fornisce lo spunto per ampliare il dibattito sulla sicurezza delle donne, con la speranza di generare qualche cambiamento».
La brutale aggressione contro la studentessa scosse le coscienze di decine di migliaia di abitanti delle grandi città, normalmente distratti, che si riversarono nelle piazze a dicembre e gennaio per protestare contro le insufficienti misure di sicurezza a tutela delle donne, puntando i riflettori mondiali su un Paese dove una donna viene stuprata ogni venti minuti.
Nove mesi dopo, mentre il Paese aspetta il verdetto — previsto per oggi — contro i quattro imputati, e anche se i manifestanti si sono tenuti lontano dalle strade, il caso dimostra di aver avuto un impatto durevole sulla società indiana. Negli ultimi mesi, stampa e tv hanno dato maggior risalto ai reati di genere, i dibattiti si intensificano sui social media e persino le stelle di Bollywood e i campioni di cricket sono scesi in campo. Questo argomento — una volta riservato a movimenti femministi, attivisti e accademici — oggi anima le discussioni della classe media urbanizzata. «Si avverte una sensibilità molto maggiore sui problemi di genere in tutti i settori della società» afferma Santosh Desai, editorialista e autrice di Mother Pious Lady: Making Sense of Everyday India (Madre e donna devota: capire l’India di tutti i giorni). «Per la prima volta la questione si è allargata a tutti i settori della società e l’interesse non accenna a diminuire, anzi, le iniziative si moltiplicano».
Ma se, come dicono gli attivisti, oggi le donne non si sentono molto più sicure di prima in India, per lo meno è stato infranto quel muro di silenzio che circondava la violenza contro le donne in questa società profondamente patriarcale. La polizia di Nuova Delhi, per esempio, è convinta che l’aumento nelle denunce di stupro è dovuto in parte al nuovo coraggio delle vittime a farsi avanti. Da dicembre ad oggi è stato denunciato oltre il doppio degli stupri rispetto all’anno scorso.
La molla sociale
Gli analisti attribuiscono il merito di buona parte di questa nuova consapevolezza ai media indiani, che hanno indagato e commentato lo stupro del 16 dicembre e i suoi strascichi. Uno studio effettuato su sei canali di informazione ha rivelato che nelle due settimane successive all’aggressione sono andati in onda 546 notiziari e 194 programmi speciali riguardanti questo caso, oltre a 7.541 minuti di diffusione radiofonica. Le principali testate hanno dedicato al caso da una a tre pagine giornalmente. «I media hanno svolto un grande ruolo come molla sociale su questo tema. Il caso ha scatenato un’ondata impressionante di emozioni e si è rivelato il punto di svolta nella società indiana nel prendere consapevolezza della violenza contro le donne» afferma Prabhakar Kumar, del Csm (centro di studi sui media) di Delhi. «Sono emerse centinaia di storie sulla violenza di genere in seguito allo stupro di Delhi e non c’è dubbio che abbiano contribuito a spezzare il silenzio che spesso imbavaglia la vittima in questa nostra società».
Sonia Singh, direttore editoriale e presidente della commissione etica presso NDTV, un canale nazionale di informazione molto seguito, in lingua inglese, concorda pienamente. «E’ stata una svolta per noi nel senso che abbiamo scoperto che il nostro pubblico era diventato molto più sensibile e ricettivo davanti a questi casi. Di conseguenza sono aumentati i servizi di cronaca, ai quali abbiamo dato maggior visibilità».
Il dibattito ha infiammato siti come Facebook e Twitter. Celebrità nazionali, come gli attori di Bollywood e i campioni sportivi che contano milioni di fan, hanno fatto sentire la loro voce. Il mese scorso, la superstar di Bollywood, Shah Rukh Khan, ha rispettato la promessa presa dopo lo stupro di Delhi di far precedere il proprio nome da quello della protagonista nei titoli di testa del suo film d’azione Chennai Express , per diffondere il rispetto per le donne in un’industria, come quella cinematografica, ancora dominata dagli uomini. Altri attori si sono spinti oltre, dando vita a iniziative come Men Against Rape and Discrimination (Uomini contro lo stupro e la discriminazione) il cui acronimo, MARD, significa uomo in hindi, per insegnare ai ragazzi la parità di genere, avvalendosi del contributo di campioni di cricket, come Sachin Tendulkar.
Rompere il silenzio
Questa maggior consapevolezza si è sviluppata soprattutto nei centri urbani, senza scalfire le masse rurali, profondamente conservatrici, che formano fino al 70% della popolazione indiana, che si aggira sui 1,2 miliardi di abitanti. «Da allora ci sono state proteste continue sui casi di stupro e la gente è scesa in strada sempre più numerosa» dice Kavita Krishnan, segretaria della All India Progressive Women’s Association . «Si è creato un interesse molto più profondo e duraturo su questo argomento, la gente vuol vedere misure efficaci per contrastare le violenze. E’ il risultato più incoraggiante».
Da Nuova Delhi ad altre città, come Mumbai, Kolkata e Manipal, non si fermano le manifestazioni di protesta per ogni nuovo caso di stupro, costringendo le autorità a passare all’azione. Lo scorso giugno, per esempio, il rapimento e lo stupro di gruppo ai danni di una studentessa universitaria in un autorisciò nella città meridionale di Manipal hanno scatenato le proteste di centinaia di studenti, in seguito alle quali la polizia ha intensificato le ricerche che hanno portato al fermo di tre assalitori. Con l’intervento di centinaia di poliziotti e l’interrogatorio di cinquemila autisti di autorisciò, tre sospettati sono stati arrestati.
Secondo fonti della polizia, anche la volontà delle vittime di denunciare gli attacchi, malgrado la paura e la vergogna, ha avuto un peso determinante. Circa il 40% di tutti gli stupri in India viene denunciato nella sola Delhi. I dati rivelano che 1036 violenze sessuali sono state denunciate a Delhi quest’anno, al 15 agosto, contro i 433 casi dello stesso periodo lo scorso anno, mentre le denunce di molestie è passato da 381 a 2267.
Il regista Siddhartha Jain ribadisce quanto sia importante mantenere acceso il dibattito per incoraggiare le donne a sporgere denuncia. «Le studentesse sono violentate dai loro insegnanti, le bambine dagli zii e dai vicini di casa, e il loro silenzio è assicurato con l’intimidazione e le minacce. Grazie a strumenti quali i film e i social media che mantengono vivo il dibattito, forse queste vittime troveranno il coraggio di raccontare le loro storie ed eradicare la violenza contro le donne».
Nita Bhalla
Fondazione Thomson Reuters
(Traduzione Rita Baldassarre)


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