by Sergio Segio | 26 Settembre 2013 6:43
Un’immagine che può, forse, costituire una sintesi efficace e può fornire qualche suggestione è quella dell’uroboro, immagine mitologica del serpente che mangia la sua coda e ciò ch’essa contiene, nutrendosi di se stesso (dal greco ouròboros, dove ouràsta per “coda” e boròs sta per “mordace”, aggettivo riferito al serpente). Quest’immagine, ricca di significati analogici e metaforici, sfruttata dalla filosofia dell’eterno ritorno e dalle visioni esoteriche dell’uno immutabile e autosufficiente, una volta che sia spogliata di questo sovraccarico, può bene definire il rapporto tra denaro e politica, nei termini di uno scambio di ritorno e di reciproco sostentamento. Il potere sostiene e rivitalizza il (procacciamento di) denaro e il denaro sostiene e rivitalizza (l’acquisizione e il mantenimento de) il potere.
C’è poi un aspetto proprio del circolo denaro-potere, che deriva dalla circostanza che, nell’economia finanziarizzata, il denaro non è statico, ma aspira all’accrescimento di se stesso: denaro che si produce dal denaro. C’è qui un carattere non del denaro come tale, ma dell’antropologia, per così dire, dell’uomo di denari: «crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crevit» (Giovenale, Satire, V, II, 140-1, che aggiunge: «Et minus hanc optat qui non habet»). Il libero mercato dei capitali è l’humus astratto ideale di quest’aspirazione crescente. Per questo, mentre l’uroboro-serpente è sempre uguale a se stesso, l’uroboro- sistema politico finanziario tende di per sé ad assumere proporzioni sempre maggiori e incombenti sull’ambiente in cui si sviluppa, traendone risorse incrementali.
Per rimanere nell’immagine, la tendenza alla crescita significa innanzitutto ch’esso stringe sempre più strettamente le sue spire sulla società, impoverendola delle sue risorse per finalizzarli ai propri scopi di crescita; in secondo luogo, ch’esso modella la società e le sue divisioni alla stregua delle sue esigenze riproduttive, secondo una tripartizione o, meglio, secondo tre cerchi concentrici. Coloro che stanno nel serpente sono i privilegiati del potere e del denaro, i quali, con funzioni diverse (politiche, ideologiche, tecnico-esecutive, avvocatesche), stanno e lucrano all’interno dello scambio denaro- potere. Attorno a loro, stanno coloro che operano per fornire loro l’humus materiale necessario, in ciò che resta della “economia reale”. In una sorta di servitù volontaria, costoro collaborano a mantenere in piedi un sistema di potere, subendo restrizioni nel loro tenore di vita, nelle condizioni di lavoro, nella disponibilità di servizi, nella sicurezza e nella previdenza sociale: sistema di potere che, pur sfruttandoli a un ritmo crescente, li vede quali vittime colluse perché, e fino a quando, li protegge dal rischio d’essere cacciati nel terzo cerchio. Nel terzo cerchio stanno gli inutili, i reietti, i disoccupati, abbandonati a se stessi come zavorra che non ha diritto di appesantire le altre parti della società, di frenare o impedire la “crescita”: parola-chiave dell’uroboro.
Il ciclo denaro-potere-denaro è, o mira a diventare, totalmente e assurdamente autoreferenziale. Ciò significa ch’esso trova pienamente in se stesso la ragione del suo essere in azione. È mezzo e fine al tempo stesso. Se noi volessimo cercare una definizione potente e adeguata di nichilismo, diremmo proprio così: non semplicemente la mancanza di scopi, che di per sé significa semplicemente insensatezza,
irrazionalità, gusto del bel gesto, cinismo, ma la coincidenza dei mezzi e dello scopo. Così avremmo una definizione dotata di terribile razionalità: la pianificata e consapevole direzione verso l’illimitata dilatazione di sé, nell’ignoranza e nell’indifferenza rispetto a ciò che sta attorno. O, meglio, nell’ignoranza e nell’indifferenza fino al momento in cui ciò che sta attorno, nel suo ribollire, incomincia a rappresentare un pericolo per la propria autoriproduzione.
Abbiamo udito, e forse qualcuno si ricorda, l’affermazione d’un uomo di governo “tecnico”: in autunno, ci aspettano pericolose agitazioni sociali; ergo occorre intervenire con qualche misura di equità. Un governo non nichilistico avrebbe detto: la società è inquieta, tensioni sociali la percorrono; dobbiamo comprenderne le ragioni e dalle ragioni procedere per promuovere la giustizia. Se lo scopo è evitare le perturbazioni, non si esce affatto dall’autoreferenzialità; anzi, la si conferma e se ne rafforzano le cinte. Nella stessa logica, le perturbazioni possono essere attenuate o sconfitte non solo con qualche misura d’equità adottata in stato d’emergenza, ma anche, se del caso, nella stessa logica emergenziale, con la repressione. In ciò si mostra la vena autoritaria d’ogni sistema di governo nichilistico, alias autoreferenziale.
Nel nichilismo e nell’autoreferenzialità, nel cerchio chiuso di potere e denaro, non c’è posto per la politica. C’è posto solo per il cieco dominio che rifiuta d’interrogarsi sul senso del suo esistere. È puro non-senso. C’è da stupirsi, allora, se quella che ancora insistiamo a chiamare politica,
sempre meno attragga la maggioranza dei cittadini, coloro che sono fuori del cerchio? Come suonano vuote, retoriche e ipocrite le invocazioni di un nuovo patto tra cittadini e politici, senza che si mettano minimamente in discussione le ragioni di quel divorzio!
La democrazia è forma della politica e la politica è la sostanza della democrazia. Ma, se viene a mancare la sostanza, la forma si riduce a vuoto involucro, a simulacro ingannatore. Nel mondo antico, la sostanza della politica era la pòlis, un concetto pieno di contenuto spirituale. Per tutti, la pòlis era la “giusta città”, di cui gli uomini liberi erano fieri, nella quale volevano vivere e per la quale erano pronti a grandi sacrifici. Pericle ne fa l’elogio celeberrimo, nell’epitaffio per i morti del primo anno della guerra peloponnesiaca (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 35-46). Al di là dell’enfasi, dell’autocelebrazione, dell’interessata edulcorazione o, addirittura, dello stravolgimento della realtà, in quel discorso c’è un dato profondo, una verità perenne: se il potere non si dà un fine che lo trascende, se le sue leggi non s’identificano con la vita buona dei cittadini in generale, quale ch’essa sia, non c’è politica e tantomeno ci può essere democrazia. Lo ribadisce, in un passo altrettanto celebre di Le supplici di Euripide, Teseo, rivolgendosi all’araldo, figura rappresentativa di tutti i dispotismi vuoti di senso, che pretendono dai sudditi l’ubbidienza per l’ubbidienza, indipendentemente dalle buone ragioni che possano invocarsi per esigerla.
Nel tempo nostro, non c’è una pòlis, giusta città per natura e necessità, che a noi tocchi di riconoscere, difendere e accrescere. Tutto è stato distrutto, tutto è rimesso alle nostre mani e alle loro cure; tutto deve essere ricostruito. Quando la vita politica non è più un dato della natura, come l’aria, il suolo e il clima, ma deve essere costruita e ricostruita, il progetto della giusta città è quella cosa che decidiamo insieme che debba essere e che chiamiamo “costituzione”.
Si dirà: allora siamo salvi! Una Costituzione, l’abbiamo e, per di più, tutti, o quasi tutti, le prestano ossequio. Si discute — è vero — dell’opportunità di modificare le forme della politica ma, almeno sulla sostanza, cioè sui principi e sui fini del nostro stare insieme — quelli indicati nella prima parte della Costituzione — tutti si dicono concordi. Nessuno (o quasi nessuno) propone modifiche.
Non c’è verità in queste parole. I principi e i fini della Costituzione possono essere lasciati stare, tali e quali sono scritti, per la semplice ragione che li si può ignorare, come se non esistessero. Che ne è del lavoro come diritto; dei doveri di solidarietà sociale; dell’uguale dignità di tutti i cittadini; dell’ambiente come patrimonio comune; della funzione sociale della proprietà; degli obblighi tributari che devono ispirarsi alla progressività; dei diritti sociali come l’istruzione, la salute, la protezione dei più deboli? Sono solo esempi. Le norme che parlano di queste cose tracciano le linee di una “buona città”, quale abbiamo voluto stabilendo una Costituzione. Ma possono essere lasciate tranquille, perché si può far finta che non esistano. Esse, per diventare realtà operante, richiedono politiche adeguate e le politiche si fanno secondo le forme. Le forme sono previste nella seconda parte della Costituzione, e, queste sì, molti vorrebbero cambiarle profondamente.
Chi sono questi “molti”? Se sono coloro che, al più o al meno, stanno nel cerchio più profondo della società, quello del connubio potere-denaro, possiamo pensare che agiscano per darsi gli strumenti per spezzarlo e dare spazio alla politica, oppure è più facile sospettare che l’operazione ch’essi hanno in corso serva a stringerlo ancora di più? Rafforzare il governo e deprimere il parlamento, confidare nella “decisione” e diffidare della “partecipazione”, a che cosa può servire, nel momento del disfacimento e del pericolo che, insieme alla democrazia, minaccia le immobili oligarchie del potere e del denaro, incapaci di uscire dalla loro crisi senza un colpo alla Costituzione?
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Il festival
Si inaugura oggi a Piacenza la sesta edizione del Festival del diritto in programma fino a domenica 29. Anticipiamo l’intervento di Zagrebelsky che sarà oggi alle 18 alla Sala dei Teatini con Stefano Rodotà. Tra gli ospiti, Enzo Bianchi, Remo Bodei, Laura Boldrini, Ilvo Diamanti, Carlo Galli, Gad Lerner, Antonio Spadaro, Nadia Urbinati
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