by Sergio Segio | 15 Settembre 2013 7:38
IMMAGINARE di censire e poi distruggere in tempo così breve l’intero arsenale chimico di al-Asad – magari anche quello (non dichiarato) dei ribelli – e credere che gli ispettori delle Nazioni Unite possano serenamente procedere a tale contabilità mentre la mattanza diventa ogni giorno più cruenta, è puro atto di fede. Putin ne è certamente consapevole e vogliamo sperare lo sia anche Obama.
Ma sarebbe un grave errore fermarsi a tale constatazione. In realtà, l’accordo Lavrov-Kerry disegna un tornante, certo provvisorio e reversibile, nell’apparentemente intrattabile guerra di Siria. Di più: il fatto stesso che le due prime potenze nucleari del mondo abbiano ripreso a negoziare seriamente, trovando un’intesa, dopo tanto discettare intorno alla “nuova guerra fredda”, è evento destinato a riflettersi sulla scena mondiale.
La sostanza del protocollo di Ginevra non è tecnicomilitare, è politica. Il punto non sono le armi chimiche – che hanno forse prodotto il due o il tre per cento delle vittime della carneficina in corso dalla primavera 2011 – ma la disponibilità a cercare insieme una via d’uscita dalle sabbie mobili siriane, anche a scapito degli interessi dei rispettivi protetti (i ribelli meno estremisti per Obama, il regime per Putin). Americani e russi proclamano solennemente che la soluzione della guerra non sarà militare, ma politica. E s’impegnano a convincere le parti in causa, almeno quelle presentabili, dell’urgenza di negoziare la pace in una conferenza internazionale.
Anche questa potrà apparire un’utopia. Ma qui non si danno ricette perfette. Nel Vicino Oriente gli eleganti teoremi euclidei sono inapplicabili. Le crisi levantine non si risolvono. Si gestiscono, diluendone l’impatto passo dopo passo, con pazienza, fantasia e soprattutto con la minore pubblicità possibile. Oggi in Siria l’unico obiettivo realistico è evitare l’allargamento del conflitto. Creando le condizioni perché, una volta circoscritto l’incendio, il combustibile interno si esaurisca. Il patto russo-americano sulle armi chimiche va dunque interpretato come un segnale politico ad amici, alleati e avversari: vogliamo sedare insieme una guerra che contiene in sé gli elementi per diventare regionale e forse mondiale. Fra tutti i protagonisti diretti o indiretti del conflitto, i più scottati sono i ribelli “ufficiali”, già alle corde sul terreno, furibondi per il “tradimento” americano. Ma anche i loro sponsor sauditi, qatarini o turchi non sono di ottimo umore, mentre gli israeliani devono tuttora decidere che cosa sperare.
Non è per nulla scontato che il percorso politico inaugurato da Lavrov e Kerry porti al successo. Ma è l’unica possibilità realistica di incidere nella crisi, prima che ci sfugga completamente di mano.
D’altronde, quali le alternative? La meno insensata, condivisa da buona parte dell’opinione occidentale e non solo, sarebbe non far nulla, scommettendo che in un modo o nell’altro i conti siano regolati in Siria, senza coinvolgere direttamente Turchia, Israele, Arabia Saudita o Iran. La più avventurosa è “far qualcosa” – l’intervento militare “incredibilmente piccolo” evocato solo pochi giorni fa da Kerry, in un non raro momento di candore – gettando benzina sul fuoco e rischiando o il buco nell’acqua o, peggio, le rappresaglie di Damasco sui nemici vicini per costringerli a entrare nel conflitto. Tutti contro tutti, nell’ultimo olocausto.
Fino a un paio di settimane fa la sciagurata opzione dimostrativa sembrava inaggirabile ad Obama. Il presidente americano si sentiva costretto a una dimostrazione di forza per non perdere quel poco di credibilità che gli resta. Sicché gli Stati Uniti si sarebbero trovati a commemorare il dodicesimo anniversario delle Torri Gemelle concedendo la propria aviazione in comodato d’uso ad al-Qaida, ovvero alle milizie jihadiste che da tempo hanno preso il sopravvento sui gruppi meno irragionevoli dell’insurrezione. Obama non lo ammetterà mai, ma deve a Putin di avergli evitato tale antipatico paradosso. E di avergli per ora risparmiato la probabile umiliazione di un voto contrario del Congresso, o almeno della Camera dei rappresentanti, alla proposta di bombardare la Siria. L’autocrate del Cremlino non si è però fatto sfuggire l’occasione di infliggere al suo riluttante partner della Casa Bianca, nientemeno che dalle colonne del New York Times,
una lezione di Realpolitik, con tanto di codicillo morale sull’insostenibilità dell’eccezionalismo americano, visto che “Dio ci ha creati uguali”.
Sulla scena globale, il bilancio tattico di questo round della crisi siriana vede quindi la vittoria ai punti di Mosca e la corrispettiva sconfitta di Washington, che il compromesso di Ginevra vorrebbe mascherare da pareggio. L’improvvisa ventata di concertato pragmatismo russo-americano ha poi svelato quanto velleitarie fossero le ambizioni inglesi e francesi. I primi si sono autoaffondati a Westminster. I secondi non hanno i mezzi della loro retorica e non sempre possono contare su quelli altrui (vedi Libia). Quanto a noi italiani, avendo inizialmente sfidato le ire americane con la “linea rossa” dell’Onu, ci siamo di recente affrettati a occupare ogni casella diplomatica disponibile per esser certi di non restare spiazzati. Che poi stando contemporaneamente con tutti non si stia con nessuno appare trascurabile per un paese in ben altre dispute affaccendato.
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