“NON PROTEGGIAMO DAMASCO MA IL DIRITTO INTERNAZIONALE”

by Sergio Segio | 13 Settembre 2013 7:29

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Ma siamo stati anche alleati un tempo e, assieme, abbiamo sconfitto i nazisti. Venne allora istituita l’organizzazione internazionale universale, l’Onu, per impedire che una devastazione simile tornasse a verificarsi.

I FONDATORI dell’Onu compresero che è opportuno che le decisioni sulla guerra e sulla pace vengano prese solo all’unanimità e, con il consenso dell’America, venne sancito nello Statuto delle Nazioni Unite il diritto di veto da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Questa previsione profondamente saggia ha favorito la stabilità dei rapporti internazionali per decenni. Nessuno auspica che l’Onu subisca il destino della Lega delle Nazioni, crollata perché non esercitava un reale ascendente. È possibile che questo accada se paesi influenti, scavalcando l’Onu, intraprendono un’azione militare senza previa autorizzazione del Consiglio.
Il potenziale attacco contro la Siria a opera degli Usa, nonostante l’opposizione di massimi leader politici e religiosi, incluso il Papa, causerebbe ulteriori vittime innocenti e un’escalation del conflitto che potrebbe estendersi ben oltre i confini siriani. L’attacco scatenerebbe una nuova ondata di terrorismo. Potrebbe minare gli sforzi multilaterali per risolvere il problema del nucleare iraniano e il conflitto israelo-palestinese, destabilizzando ulteriormente il Medio Oriente e il Nord Africa. Potrebbe squilibrare l’intero sistema internazionale di ordine e legalità.
La Siria non è di fronte a una battaglia per la democrazia, bensì a un conflitto tra governo e opposizione in un paese multireligioso. Sono pochi in Siria i paladini della democrazia, ma ci sono più che a sufficienza combattenti di Al Qaeda ed estremisti di ogni genere in lotta contro il governo. Il dipartimento di Stato Usa ha rubricato come organizzazioni terroristiche il Fronte Al Nusra e lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che combattono a fianco dell’opposizione. Questo conflitto interno, alimentato dalle armi straniere fornite all’opposizione, è uno dei più sanguinosi del mondo. I mercenari arabi che combattono in Siria e i militanti provenienti dai paesi occidentali, persino dalla Russia, sono per noi fonte di grave preoccupazione. E se rientrassero nei nostri paesi con l’esperienza acquisita in Siria? In fin dei conti dopo aver combattuto in Libia gli estremisti si sono spostati in Mali. È una minaccia per tutti noi.
Fin dall’inizio la Russia ha promosso un dialogo pacifico che consentisse ai siriani di elaborare un compromesso per il loro futuro. Non stiamo proteggendo il governo siriano, bensì il diritto internazionale. Dobbiamo ricorrere al Consiglio di Sicurezza e credere che tutelare l’ordine e la legalità nel mondo complesso e turbolento di oggi sia uno dei pochi modi per impedire che i rapporti internazionali scivolino nel caos. La legge è sempre legge e dobbiamo seguirla, volenti o nolenti. In base al diritto internazionale l’uso della forza è consentito solo per autodifesa o su decisione del Consiglio di Sicurezza. Qualunque altro comportamento costituirebbe un atto di aggressione.
Nessuno dubita che in Siria sia stato usato gas venefico. Ma è giustificato credere che non sia stato usato dall’esercito siriano, bensì dall’opposizione, per provocare l’intervento dei loro potenti Stati stranieri. Non si possono ignorare i rapporti secondo cui i militanti stanno preparando un nuovo attacco, stavolta contro Israele.
È allarmante che l’intervento militare nei conflitti interni di paesi stranieri sia diventato una pratica comune per gli Usa.
Rientra nell’interesse a lungo termine dell’America? Ne dubito. Nel mondo l’America viene sempre più considerata da milioni di persone non un modello di democrazia, ma un paese che conta solo sulla forza bruta. Ma l’uso della forza si è dimostrato inefficace e senza scopo. L’Afghanistan vacilla e nessuno può prevedere cosa succederà dopo il ritiro delle forze internazionali. La Libia è divisa in tribù e clan. In Iraq la guerra civile prosegue e ogni giorno si contano decine di morti. Negli Usa molti vedono analogie tra l’Iraq e la Siria e si chiedono perché il loro governo voglia reiterare errori recenti. Non conta quanto siano mirati gli attacchi, le vittime civili sono inevitabili, inclusi gli anziani e i bambini, che gli attacchi hanno l’intento di proteggere.
Il mondo reagisce chiedendosi: se non si può contare sul diritto internazionale, allora bisogna trovare altri modi di garantirsi la sicurezza. Così sono sempre più numerosi i paesi che cercano di acquisire armi di distruzione di massa. È logico: se hai la bomba, nessuno ti toccherà. A parole si afferma la necessità di rafforzare la non proliferazione, quando in realtà viene minata. Dobbiamo smettere di usare il linguaggio della forza e tornare sulla via della civile soluzione diplomatica e politica dei conflitti.
Negli ultimi giorni è emersa una nuova opportunità di evitare l’intervento militare. Gli Usa, la Russia e tutti i membri della comunità internazionale devono mettere a frutto la disponibilità del governo siriano a porre il proprio arsenale chimico sotto il controllo internazionale affinché venga distrutto. A giudicare dalle dichiarazioni del Presidente Obama gli Usa la considerano un’alternativa all’intervento militare. Apprezzo l’interesse del Presidente a proseguire il dialogo con la Russia sulla Siria. Dobbiamo collaborare per mantenere viva questa speranza, come concordato al vertice G8 in Irlanda del Nord a giugno, e ricondurre il dibattito verso il negoziato. Se riusciremo a evitare l’uso della forza contro la Siria migliorerà l’atmosfera degli affari internazionali e si rafforzerà la fiducia reciproca. Sarà un successo comune che aprirà la porta alla cooperazione su altri temi critici.
La mia azione e il mio rapporto personale con il presidente Obama sono caratterizzati da una fiducia crescente. Ho analizzato con attenzione il suo discorso alla nazione di martedì. La tesi dell’eccezionalità americana che sostiene quando afferma che la politica degli Stati Uniti «è quello che differenzia l’America, quello che ci rende eccezionali» mi trova piuttosto in disaccordo. Esistono paesi grandi e paesi piccoli, ricchi e poveri, paesi di lunga tradizione democratica e paesi che stanno trovando la strada verso la democrazia. Anche le loro politiche sono diverse. Siamo tutti diversi, ma quando chiediamo la benedizione divina non dobbiamo dimenticare che Dio ci ha creati uguali.
(© 2013 New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi)

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