by Sergio Segio | 28 Settembre 2013 6:58
«Lo sai, presidente, che cosa mi ha detto Henry Kissinger nel mio incontro con lui a New York in questi giorni? Mi ha detto, alludendo a te: “Ho visto tante cose nella vita, ma mai avrei pensato che io, che amo tanto l’Italia, avrei dovuto tifare per quell’uomo che ho combattuto per tanti anni e che ho cercato di tener lontano dal mio Paese”. Te lo racconto tanto per spiegarti come vedono le vicende di casa nostra da quelle parti…» Giorgio Napolitano accoglie con un mezzo sospiro la battuta riportata da Enrico Letta. Ne capisce perfettamente il senso. Perché fu proprio Kissinger, nel 1975, a fargli rifiutare il «nulla osta» necessario per ottenere il visto d’ingresso negli Usa, dove l’allora dirigente del Pci era stato invitato a tenere un ciclo di conferenze nelle più importanti università. Tour rinviato a tre anni più tardi, mentre poi con l’ex eminenza grigia della Casa Bianca il capo dello Stato stringerà un rapporto cordiale, tanto da sentirsi da lui definire: «My favourite communist».
È l’unico momento sdrammatizzante (e di sapore risarcitorio, rispetto a tante critiche delle ultime ore) che il premier e il presidente della Repubblica si concedono nell’ora e mezza di faccia a faccia, ieri sera al Quirinale. Per il resto c’è assai poco da sorridere. Infatti, la questione che devono affrontare è di quelle che richiedono massima concentrazione e freddezza. E non a caso si mostra risoluto e calmo, Enrico Letta, quando spiega al padrone di casa come ha ipotizzato la scansione di tempi e metodi della verifica di maggioranza che si prepara ad avviare. In modo che — gli anticipa — «se davvero vogliono farmi cadere, debbano mettere le impronte digitali… io non avrò problemi a dimettermi».
Vuole un chiarimento «inequivocabile e definitivo», senza ambigue mediazioni. Insomma, «senza se e senza ma». Sa però bene, il premier, che per ottenere una garanzia seria sulla tenuta del suo governo non può accontentarsi di certi affidamenti anticipatigli più o meno sottotraccia da diversi esponenti del Pdl. Dovrà dunque ancorare il proprio tentativo a un elenco dettagliato di priorità, forzatamente concentrate sul campo economico. Soprattutto, ma non solo, la legge di stabilità. Alla quale aggiungere la riforma del sistema elettorale (e chissà se anche qualche provvedimento sulla giustizia, come chiesto in extremis dai ministri del centrodestra). Una proposta secca, una linea dura. Un «prendere o lasciare» da offrire subito al Consiglio dei ministri e poi — forse già lunedì o martedì, prima che si decida sulla decadenza di Berlusconi dallo scranno di Palazzo Madama — al voto delle Camere, per evitare ulteriori logoramenti in una fase di crisi già strisciante.
Ecco il «percorso» per mettere con le spalle al muro il Pdl e al quale il capo dello Stato offre incoraggiamento e, anzi, «pieno consenso». Un asse scontato. Non per nulla, anche dal punto di vista del presidente, questo è il solo modo per far uscire l’esecutivo dal vicolo cieco in cui lo ha imprigionato la minaccia di secessione di deputati e senatori del centrodestra. Un’operazione-verità attraverso cui, parlamentarizzando una crisi politica ancora virtuale ma che può presto sfociare in crisi di sistema, si vincolerebbe il centrodestra (ma pure un centrosinistra molto a disagio in quest’alleanza) ad assumersi pubblicamente le proprie responsabilità davanti al Paese.
Funzionerà questo schema, nonostante la drammatica fuga in avanti del Cavaliere? È scettico o tranquillo, il presidente? «Tranquillo? Non posso certo saltellare», taglia corto Napolitano, con un po’ di fastidio. O nutre invece ottimismo, nonostante il clima da cupio dissolvi che serpeggia nel Pdl? «Ottimista nel senso di non pessimista, sì, ma certo non ingenuo» (ossia pragmaticamente non sfiduciato a priori), replica in mattinata ai cronisti che lo pedinano fino a Milano, dove partecipa a un convegno in memoria di Luigi Spaventa. Ed è lì che, rievocando l’impegno anche politico dell’amico economista, gli escono un paio di frasi sferzanti, chiaramente riferibili al presente. Vale a dire il suo rinnovato «no» alla prassi del voto anticipato, per lui «un’anomalia tutta italiana». E la deriva di cui è ostaggio la pratica politica oggi, poiché si è «smarrito ogni nozione del confronto civile» e perfino «il rispetto istituzionale e personale».
Una denuncia da associare all’amarezza per le accuse sempre più aggressive che scattano dalla barricata dei «falchi» berlusconiani, e che si sommano a quelle di altri antipatizzanti della prima ora, come i vertici del Movimento 5 Stelle. Attacchi compensati ieri da attestati di solidarietà e stima venuti da diversi fronti. Ma è ovvio che il capo dello Stato tiene a bada i sentimenti personali e si concentra sulla sopravvivenza del governo. La prima verifica, in Consiglio dei ministri, si chiude a notte fonda con un muro contro muro tra i ministri del Pdl ed Enrico Letta. Un caos inconcludente. Un brutto segnale.
Marzio Breda
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