Malumore dei militari: rischiamo di restare bloccati come in Iraq

by Sergio Segio | 8 Settembre 2013 6:15

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Poi giù, pesante, con le critiche raccolte tra i suoi colleghi. Non c’è strategia, non esiste un obiettivo finale, abbiamo rinunciato all’effetto sorpresa, tutto condotto in modo amatoriale senza tener conto di qualsiasi principio bellico. Giudizi che tradiscono sfiducia nelle mosse di Obama e nell’utilità del raid. Anche se con eccezioni significative. Il generale David Petraeus si è schierato ieri a favore. Posizioni che risentono di un «processo» iniziato da tempo.
Nel luglio 2012 arrivano a Washington le prime prove sull’uso di armi chimiche in Siria. Qualche settimana dopo Obama pronuncia la frase che lo «intrappola»: il ricorso ai gas da parte di Assad è una linea rossa invalicabile. Il 2 agosto la Cnn rivela che il presidente ha firmato un ordine segreto per armare i ribelli. Questo dovrebbe portare a un flusso costante di aiuti, però non è così. Alcuni collaboratori del presidente premono per fare di più, lui resiste. Non si fida di quanto può avvenire in un Paese complicato come la Siria. La diatriba riemerge nel febbraio 2013, con il segretario di Stato Kerry e la Cia che insistono. L’intelligence addestra piccoli gruppi con l’aiuto giordano. Altre formazioni di insorti dicono di non aver visto neppure un proiettile. La Casa Bianca continua a girare al largo mentre il Pentagono elabora scenari senza perdere l’occasione per frenare.
Il capo di stato maggiore Martin Dempsey, parlando nell’aprile di quest’anno davanti alla Commissione difesa del Senato, non potrebbe essere più chiaro: «Prima di agire dobbiamo prepararci a quello che viene dopo». I pianificatori temono un vuoto di potere in Siria o una vittoria di forze radicali. A metà maggio, mentre aumentano le segnalazioni sull’uso dei gas, Obama presiede una riunione. Dempsey parte all’offensiva contro Kerry chiedendogli se è consapevole dei rischi che si corrono in caso di un’iniziativa militare. Per i testimoni non se le mandano a dire. Dal Pentagono aggiungono: quelli del Dipartimento di Stato hanno una «visione romantica» della ribellione mentre in Siria è in corso una guerra settaria. Riemerge il dilemma di sempre legato ad un eventuale post-Assad. Un’operazione massiccia può aprire le porte a una vittoria qaedista, ma restare a guardare rischia ugualmente di favorire i «radicali». Rimbomba la domanda dei giorni della campagna in Libia: «Chi sono i ribelli?». Quesito che ha solo risposte incerte.
Il generale Dempsey è ancora più esplicito il 19 luglio, in una lettera al Congresso dove spiega le quattro opzioni per la Siria, compresa quella considerata in questi giorni e affidata al binomio missili cruise/aerei. Dempsey sottolinea che i suoi uomini sono pronti, però i parlamentari devono considerare tutte le implicazioni di un’azione, anche il pericolo di essere risucchiati in un impegno più profondo. Consiglia: dovremmo aiutare la nascita di un’opposizione «moderata» dandogli una capacità militare e mantenere una pressione sul regime. Nelle sue parole torna il riferimento al dopo. Ogni atto di forza deve essere legato alla certezza di conseguire obiettivi utili per gli Usa. Infine mette in guardia sulle «conseguenze non volute» e cita l’esperienza degli «ultimi 10 anni». Tre parole per non dire Iraq, Paese con un’autorità centrale debole e un terrorismo mai domo. Dopo una tale «lezione» dei generali riluttanti non è difficile comprendere perché Obama dovrà faticare per strappare il sì del Congresso.
Guido Olimpio

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