L’uso personale della giustizia
In questa affannosa ricerca, il diritto ha smesso di essere norma generale e astratta, retta da un principio di legalità costituzionale teso a garantire l’eguaglianza di tutti davanti alla legge.
E’ apparso semmai come il cilindro magico dal quale estrarre, di volta in volta, il coniglio del giusto colore: grazia, commutazione di pena, amnistia, indulto, revisione del giudicato, ricorso alla Corte europea dei diritti umani, impugnazione di legge alla Corte costituzionale.Fino alla proposta di travestire da giudice di rinvio alla Consulta un organo parlamentare (la giunta per le elezioni) a composizione politica, privo di terzietà, che non ha poteri decisori ma solo istruttori, parte di un Parlamento che, se vuole, può sempre modificare le leggi, specialmente se le ritiene incostituzionali. Insomma, di tutto e di più. Forse troppo, perché tutto è possibile ma a tutto c’è un limite. E il diritto protegge tutti, ma non a tutti i costi. Anche domani, davanti alla giunta per le elezioni del Senato, il diritto verrà tirato come un elastico: la legge Severino, introducendo il divieto di ricoprire cariche elettive a seguito di condanna definitiva, ha natura penale? Se sì, non potrebbe operare retroattivamente. Dunque, non troverebbe applicazione con riferimento alla condanna di Berlusconi, intervenuta dopo l’entrata in vigore della nuova legge.
E’ la tesi dei sei pareri giuridici pro veritate – invero non tutti di eguale pregio – depositati in giunta. Ne sintetizzo il ragionamento, scandito da quattro concatenati passaggi: [1]La Costituzione impone al legislatore il rispetto degli obblighi derivanti da accordi internazionali, come la Convenzione europea dei diritti umani. [2]Secondo quanto insegna la Corte costituzionale, le norme della Cedu vanno interpretate alla luce degli orientamenti della Corte di Strasburgo. [3]La giurisprudenza dei giudici europei riconduce alla materia penale sanzioni che, anche se qualificate diversamente dal diritto statale, hanno in concreto i connotati tipici della pena. [4]La sanzione della decadenza dal seggio parlamentare è, in tal senso, una vera e propria sanzione penale. Come accade nella matematica, il procedimento è corretto, ma il risultato è sbagliato.
Le premesse del ragionamento corrispondono a verità, ma dubito che il divieto sopravvenuto di ricoprire una carica elettiva presenti quei connotati sostanziali cui guarda la Corte di Strasburgo. Della pena, infatti, la decadenza dal seggio non ha né lo scopo (prevenire nuovi delitti, reprimere il reo) né la gravità (perché non impone al condannato condizioni intrinsecamente afflittive). La tesi giuridica favorevole al senatore Berlusconi, a ben guardare, strumentalizza l’orientamento dei giudici europei. La loro pragmatica giurisprudenza mira giustamente a evitare la truffa delle etichette: il rischio, cioè, che ogni Stato, battezzando come extrapenale un’autentica sanzione, possa così negare le garanzie individuali spettanti sia all’imputato che al reo previste dalla Cedu. Ma nel mondo capovolto di palazzo Madama, si persegue esattamente il contrario. Si vorrebbe estendere quelle stesse garanzie (come il divieto di retroattività) a chi non ha titolo giuridico per rivendicarle. La truffa delle etichette starebbe proprio nel ricondurre alla materia penale una misura approvata anche da chi ora ne contesta la natura giuridica, operante sul piano esclusivamente elettorale, in ottemperanza a due norme costituzionali, facce della stessa moneta: l’art. 65 (che chiama la legge a determinare «i casi di incompatibilità» con la carica parlamentare) e l’art. 54 (che pretende da chi è chiamato a svolgere funzioni pubbliche di adempierle con «disciplina e onore»). E’ comunque positivo che falchi e colombe del centrodestra (e qualche pontiere di centrosinistra) mostrino, oggi, così tanta attenzione ai vincoli costituzionali derivanti dagli obblighi internazionali e dalle sentenze della Corte di Strasburgo. Non è sempre stato così. Spesso di quei vincoli ci si è liberati con un’alzata di spalle, ignorandoli o fingendo di ignorarli.
Qualche esempio recente? Con due «sentenze-pilota» la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia intimandole un termine inderogabile entro cui rimediare alle sistematiche trasgressioni accertate. E’ accaduto a gennaio, in ragione del sovraffollamento carcerario che vìola il divieto di trattamenti inumani e degradanti (art. 3 Cedu), e agli inizi di settembre perché l’Italia si ostina, contro più norme della Cedu, a negare l’indennità integrativa dovuta a chi è stato infettato da HIV, epatite B o C dopo una trasfusione. E ancora. A fine 2012 le Camere hanno dato ratifica ed esecuzione al Protocollo opzionale alla Convenzione Onu sulla tortura (legge n. 195) e hanno adeguato l’ordinamento allo Statuto della Corte penale internazionale che giudica anche della tortura (legge n. 237), senza introdurre però il relativo reato nel codice penale. Eppure tutte le pertinenti convenzioni internazionali cui l’Italia ha aderito prevedono l’obbligo di punire penalmente la tortura. L’ultimo esempio riguarda i Cie, dove segreghiamo gli stranieri irregolari in attesa di espulsione. Vere e proprie prigioni fatte di gabbie di ferro, filo spinato, cemento armato, muri di cinta. Dove uomini e donne, senza aver commesso alcun reato, scontano una detenzione che, per scopo e modalità afflittive, a Strasburgo qualificherebbero un’autentica sanzione penale.
Per il legislatore italiano è, invece, una misura amministrativa. Una truffa delle etichette, che ha permesso di applicare retroattivamente le norme che hanno progressivamente allungato la durata di questa galera, fino agli attuali infiniti 18 mesi (legge n. 129 del 2011). Il rispetto della legalità costituzionale non può avvenire a giorni alterni. Altrimenti è poco credibile rivendicare – in punta di diritto – per il proprio leader politico ciò che si continua a negare a un soggetto torturato dalle forze dell’ordine. O a un detenuto chiuso in celle colme oltre l’inverosimile. O a un migrante abbandonato nell’inferno di una prigione che preferiamo etichettare sotto falso nome.
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