L’ultima estate di Cechov nel giardino senza ciliegi

by Sergio Segio | 9 Settembre 2013 8:47

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Nel settembre 1898, Anton Cechov si trasferì a Jalta, in Crimea, dove i malati di petto passavano i mesi d’inverno. Qualche tempo più tardi, avrebbe accettato di morire: ma allora aveva soltanto trentotto anni, la mente piena di racconti e di drammi, il desiderio di una donna che non aveva mai conosciuto, e sperava di avere ancora quindici anni di vita. Non aveva voglia di partire da Mosca, dove lo trattenevano amici, teatri, ristoranti, biblioteche, librerie, concerti: «Ma — scrisse — ho dovuto andarmene da Mosca perché seguito ancora a intrattenere dei rapporti illegittimi con i bacilli». Sperava nel clima della Crimea, che gli consigliavano i medici: sperava che la febbre, i frenetici accessi di tosse secca, il sapore di sangue nella bocca lo avrebbero abbandonato — sebbene egli non si lamentasse mai della malattia, perché lamentarsi era, per lui, un segno di cattiva educazione. Lì, a Jalta, accettava di vivere una vita rallentata, contendendo qualche anno o qualche mese alla morte.
I suoi bellissimi occhi blu-marrone erano ancora chiari, netti, precisi, e nessuna ombra li macchiava. Spesso, a Jalta, il tempo era bellissimo anche d’inverno, quando Mosca e Pietroburgo erano coperte di neve: tutto era limpido, asciutto, caldo: tutto verdeggiava; fiorivano le rose, i garofani, i crisantemi, e certi fiori gialli di cui non sapeva il nome. Un giorno, fu rapito dall’entusiasmo. Vicino a Jalta, a Kucukòj, vide una casa di quattro stanze, una casinetta tartara, una cucina, una stalla per le mucche, essiccatoi per il tabacco, una sorgente che sgorgava dalle rocce, una bilancia, una credenza, un armadio, una dozzina di sedie viennesi, una stufa di ferro — mentre il latte era chiuso in brocche immerse nell’acqua fredda. Lì accanto, il mare era meraviglioso. La villetta gli piacque tanto che la comprò subito, per una somma bassissima: fece il contratto di acquisto; e pochi giorni dopo ci andò ad abitare, portandosi dietro le materasse, delle lenzuola e un samovàr. Amò sempre Kucukòj, che lasciò in eredità alla moglie. «Bellevue, una tale Bellevue da restare senza fiato».
Durante i mesi d’inverno, Cechov viveva a Jalta. Fece costruire una ampia casa di tre piani, con una specie di torre, dalla quale si vedeva il mare. Amava soprattutto il giardino, dove piantò lui stesso, nel novembre 1899, settanta piante di rose: cinquanta acacie piramidali, molte camelie, gigli, tuberose. A febbraio, solo tre piante di rose non avevano attecchito. Il salice era verde: l’erbetta era fitta, il mandorlo in fiore; mentre aveva verniciato in tinta verde delle panche di legno. Zappava in giardino per giornate intere: il tempo era splendido: tutto era in fiore; gli uccelli cantavano. «Questa non è una vita — scrisse — ma una cuccagna». Era fierissimo del suo talento di giardiniere: se non fosse stato scrittore, avrebbe fatto certamente il giardiniere. Già a metà gennaio, aveva sentito il timido, incerto pigolio degli uccelli, specie dei tordi, che alla fine di marzo avrebbero preso arditamente il volo per Mosca.
Purtroppo, a Jalta, c’era anche la noia: una immensa nebbia di tedio, pesante e greve come il marmo, che gli abitanti producevano ogni giorno, senza sosta, come se non sapessero fare altro. Cechov sognava le folle colorite e divertenti che gremivano le strade nevose delle grandi città del Nord, le belle donne («qui non c’è nemmeno una donna»), e i teatri. A Jalta, anche il bel tempo faceva venir noia: d’estate gli alberi erano ingialliti e infelici: lui non riusciva a scrivere nemmeno un racconto, perché aveva bisogno di respirare un’altra aria, che gli donasse l’esistenza della felicità. «Qui — diceva — è impossibile lavorare, impossibile e impossibile, assolutamente impossibile». Si sentiva come un albero sradicato, o un uomo al confino.
Alla sorella Marija scrisse, nel novembre 1899, una lunga lettera di timbro quasi kafkiano: «Non sai che noia, che giogo è coricarsi alle nove di sera, coricarsi furioso, con la consapevolezza che non c’è un posto dove andare, nessuno con cui parlare, e che si lavora non si sa per cosa, dato che in ogni modo i tuoi lavori non ti riesce nemmeno di vederli, né di sentirli. Il pianoforte ed io, ecco dentro casa due oggetti che conducono un’esistenza senza suono, perplessi sul perché ci abbiano messi qui, visto che nessuno ci suona». Per divertirsi, almeno un pochino, aveva escogitato uno sport personale, comperando una trappola di nuova costruzione, con cui acchiappava i topi.
Che dicevano di lui, gli amici vecchi e nuovi, specialmente i nuovi, che per la prima volta lo avevano incontrato a Jalta? Tutti erano d’accordo; e quasi tutti avevano torto. Gli amici dicevano che parlare con lui era una cosa piacevolissima: non avevano mai incontrato un essere umano così amabile, gentile e affettuoso. Quando parlava, si nascondeva dietro l’ironia e la discrezione, come se lui non esistesse, e esistesse soltanto il piacere, a tutti comune, della parola. Le sue lettere erano spiritosissime: tra le più spiritose che io conosca; persino quando era disperato, divorato dalla tubercolosi, senza nessuno, e sapeva che la morte stava lì, a mezzo metro da lui. Gli amici aggiungevano che Cechov era generosissimo: aiutava di continuo gli altri, anche quando non aveva denaro: gli altri uno per uno; non le folle, come faceva grandiosamente Tolstoj. Ma, a un certo punto, anche gli amici più cari facevano una terribile riserva su di lui. Cechov non voleva bene a nessuno: era completamente privo di amore e di passione; come diceva Gorkij, trattava «gli uomini con freddezza diabolica, indifferente come la neve e la tormenta». La cosa singolare è che Cechov, in giovinezza, aveva detto le stesse cose di se stesso, sostenendo di essere vuoto, e privo di quel misterioso qualcosa che è necessario alla letteratura.
Cechov era distante, talvolta freddo (ma sempre amabile, o amabilissimo). Badava alle superfici: persino a come si vestiva, se andava a trovare Tolstoj. Non abbracciava e baciava nessuno, al contrario degli affettuosissimi scrittori russi che ho incontrato. Ma nella profondità di quel meraviglioso diamante che era la sua anima, sentiva un immateriale amore per la vita, anche se a una domanda della moglie rispose: «La vita è esattamente come una carota. Una carota è una carota, e non si sa altro». Per Tolstoj, provava una vera venerazione, sebbene Tolstoj gli dicesse che i suoi drammi erano spaventosamente brutti, più brutti delle tragedie e delle commedie di Shakespeare. Non aveva un bisogno assoluto della presenza della persona amata: l’amava di più, se talvolta l’amata era lontana migliaia di chilometri e lui poteva soltanto fantasticare di baciarla e abbracciarla tre o quattro mesi più tardi (ma allora con fortissimo ardore erotico). La donna amata, per lui, era la luna, che non appare ogni giorno all’orizzonte, e ingrandisce e rimpiccolisce: questa luna era un amatissimo specchio, che concentrava in sé tutti i raggi del sole sconosciuto, o forse assente.
***
Nell’autunno del 1898, Cechov vide Olga Knipper recitare sulle scene del Teatro d’arte di Stanislavskij: due volte, in un testo di Aleksej Tolstoj, e in una ripresa del Gabbiano dello stesso Cechov. «Olga — scrisse —, secondo me, è meravigliosa: quella voce, quella nobiltà, quella schiettezza — tutto era così bello da sentirsi la gola stretta. Se fossi rimasto a Mosca, mi sarei innamorato di lei». In realtà s’innamorò subito, senza riserve; e disse, pensando certamente a lei: «Quanto più invecchio, tanto più frequente e pieno sento in me il battito della vita».
Scrisse per la prima volta ad Olga il 16 giugno 1899: poi il 1° luglio. Erano lettere discrete, miti, dolcissime, spiritose, talvolta buffonesche: sempre piene di amore. «Non fatemi perdere la testa», le diceva: ma la testa era già perduta. In luglio fecero un viaggio insieme nel Sud: lei gli scrisse, e lui rispose: «Cara, straordinaria attrice, meravigliosa donna, sapeste come la vostra lettera mi ha rallegrato. Mi inchino a voi profondamente, così profondamente, ma così profondamente da sfiorare con la fronte il fondo del mio pozzo. Mi sono abituato a voi, e ora soffro di nostalgia e non posso assolutamente rassegnarmi all’idea che non vi vedrò fino a primavera… Se possibile, non dimenticate lo scrittore a riposo, e vostro assiduo ammiratore Anton Cechov». E poi: «Attrice, scrivete, per amore di tutto quello che c’è di santo, altrimenti intristisco come in prigione, e m’arrovello, m’arrovello». «Mi pare sempre che la porta stia per aprirsi e che entri tu. Ma tu non entri, tu adesso sei alle prove». E infine: «Ti bacio forte, da svenire, da stordirmi».
Olga Knipper era nata nel 1868, otto anni dopo Cechov. Non erano molti: ma la tisi aveva rapidamente logorato e invecchiato Cechov, che diceva di sentirsi « suo nonno», anzi il «suo nonnino». Il padre di Olga era un ingegnere di origine tedesca: la figlia aveva ricevuto una buona educazione borghese, con lezioni di musica, di disegno e di lingua straniera. Poi aveva seguito corsi di arte drammatica, e nel 1898 era entrata nel Teatro d’arte di Stanislavskij, di cui divenne presto la migliore attrice. Era vivace: parlava con curiosità e gioia di vestiti, cappelli e cucina; avida di vivere e di essere festeggiata, con pranzi e feste e medaglie e fiori. Amava Cechov: ma amava anche il successo, a cui Cechov era (quasi) indifferente, e il potere, che Cechov disprezzava. Sposandosi con lui, Olga Knipper sapeva di diventare la più famosa attrice di Russia, e la moglie, come diceva infelicemente, del «Maupassant russo».
Nei primi giorni del dicembre 1900, Cechov decise di partire per Nizza, senza nessuna ragione dichiarata, abbandonando per qualche tempo Olga, la sua «luna». Amava viaggiare, prendere la fuga, andarsene molto lontano dagli sguardi. «Viaggiare da un posto all’altro e rimirare ogni cosa è assai più piacevole che starsene a casa a scrivere, sia pure per il teatro». Offese e ferì Olga, la quale gli scrisse: «Non posso rassegnarmi a questa separazione. Perché sei partito, mentre dovresti essere vicino a me? Ieri, mentre il treno si allontanava e nello stesso tempo tu ti allontanavi da me, sentii per la prima volta che ci separiamo. Ho camminato a lungo dietro il treno come se non ci credessi ancora, poi mi sono messa a piangere, come non l’avevo fatto da molti anni».
Qualche giorno dopo, il 15 dicembre, Cechov arrivò a Nizza, e scrisse alla moglie una lettera nella quale non sembrava nemmeno supporre di averla ferita. Lì, a Nizza, — disse — era felice per lo scintillio del sole, la finestra di camera spalancata, e l’anima anch’essa spalancata a tutti i venti del mondo. Ascoltava i cantori e i suonatori ambulanti, si scaldava al sole, e pensava con rimpianto e nostalgia a Olga abbandonata. Poi si spinse fino a Firenze, a Roma, e forse sarebbe andato ancora più lontano se non l’avesse assalito la passione opposta: la noia di girovagare; imponendogli di tornare a Jalta. Il 22 febbraio 1901 era di nuovo a casa.
Dopo questa fuga e queste lacrime, Olga decise imperiosamente di sposare Cechov; e lui disse di sì, senza letizia. Non voleva ferirla. Ma il matrimonio, per lui, era così poca cosa — poco più di un gesto —; a lui importava soltanto l’amore di Olga e la propria esistenza di «giardiniere». «Faremo tutto quello che desidererai», disse alla moglie. Io sono in «tuo potere». Così Cechov raggiunse Mosca. Sebbene fosse in potere di Olga, si difese come poteva: con l’ironia, i sotterfugi, e il silenzio. «Ho una paura terribile degli sposalizi — scrisse alla moglie —, delle congratulazioni, dello champagne, che bisogna tenere in mano e nello stesso tempo sorridere con aria vaga». Il 25 maggio si sposarono di nascosto, evitando i parenti e gli amici: alla cerimonia c’erano soltanto quattro persone; Cechov aveva invitato come testimoni due studenti sconosciuti. Olga accettò lo strano matrimonio, perché, sebbene fosse una signora dell’apparenza, amava il marito più di quanto immaginasse.
La luna di miele non assomigliò a nessuna delle lune di miele che il matrimonio cristiano abbia mai conosciuto. A Mosca Cechov salutò, velocissimo, la madre di Olga: poi prese il treno per Novgorod, discese in battello il Volga, risalì il fiume Bianco e si fermò ad Aksenovo, in un sanatorio. Aveva un piano: come Tolstoj raccomandava, fare una cura di kumýs (una specie di yogurt), lunga due mesi. Ne beveva quattro bottiglie al giorno: il miracoloso kumýs lo fece ingrassare di otto libbre («ma non so per cosa, se per il kumýs o per il matrimonio»), e quasi cancellò la tosse secca che gli rovinava la vita.
Dopo trenta giorni Cechov si annoiò: in fondo, a lui di guarire importava poco; voleva vivere una vita felice o almeno senza tedio. Abitare nel sanatorio di Aksenovo era come vivere in un «battaglione disciplinare». I giornali erano tutti vecchi, «roba dell’anno passato», c’era un pubblico senza interesse, attorno baschiri; e se non fosse stato per la natura, la pesca, e le lettere, sarebbe certo scappato via. Così fece: scappò via: tornò a Jalta, dove, dopo quindici giorni, stava di nuovo male, vendetta del kumýs abbandonato. Ma, al contrario di quello che qualcuno potrebbe supporre, il matrimonio farsesco e la tediosa luna di miele non l’avevano affatto disamorato della moglie. Il 25 agosto le scrisse da Jalta: «Tesoruccio mio, son giusto tre mesi oggi che ci siamo sposati. Io sono stato felice, grazie a te, gioia mia, ti bacio molto. Ti abbraccio forte, forte. Il tuo marito e amico per i secoli dei secoli. Anton».Tutto questo era vero: l’unico matrimonio che Cechov potesse conoscere.
Quale sia stata la vita dopo il matrimonio è difficile raccontare: bisognerebbe avere un binocolo doppio, o uno triplo, e fissare contemporaneamente l’insondabile anima di Cechov, e l’oscura anima di Olga. Certo, lui l’amava moltissimo, e spesso, malgrado la malattia e la solitudine, le sue lettere commuovono per freschezza, dolcezza e ardore. «Anima mia, angelo, cara mia, colombella, ti supplico, credi che io ti amo, ti amo profondamente; non dimenticarmi dunque, scrivi e pensa a me più sovente». «Ho una voglia pazza di vedere mia moglie, ho nostalgia di lei e di Mosca, ma non c’è niente da fare. Ti penso e ti ricordo quasi ogni ora». «Ti bacio forte fino all’indecenza». «Credo che se potessi essere disteso solo per metà notte, con il naso sepolto nella tua spalla, cesserei di stare male. Non posso vivere senza di te».
Olga era sempre via: a Mosca, a Pietroburgo, a fare le prove, a recitare, alle feste: esisteva con un’intensità estrema. Cechov sapeva che la separazione era fatale, ma avrebbe voluto che lei implorasse un po’ di libertà ai suoi tiranni del Teatro, e scendesse ogni tanto a Jalta, sia pure per pochi giorni. Questa condizione diventò tragica nei mesi dell’inverno 1901-1902, quando lei promise di venire per le feste di Natale, poi a gennaio, poi a febbraio, e non venne mai, come la «principessa lontana» della leggenda. Questa volta lui si arrabbiò profondamente. «Sei una tedesca positiva, di carattere — le scrisse il 25 gennaio 1902 —, arrivi il lunedì della prima settimana di quaresima e te ne vai il mercoledì o addirittura il martedì della medesima settimana… Sei la mia croce!… Bisogna minacciarti, altrimenti non verrai affatto, o verrai solo per mezz’ora».
Anche Olga aveva nostalgia del marito: la mattina non aveva il coraggio di alzarsi e guardava verso l’altra sponda del letto, dove, qualche volta, era apparsa la barba bionda e brizzolata di Cechov. Ma lui non c’era: non c’era mai; c’era soltanto il letto non disfatto, il cuscino intatto, e lei si accusava di essere crudele col suo eterno teatro. Ma, a nessun costo, avrebbe rinunciato al teatro. Non avrebbe nemmeno rinunciato al suo efferato spirito d’ordine. Voleva che il marito lavorasse sempre per il Teatro d’arte di Mosca: voleva che si cambiasse la cravatta ogni giorno, che si facesse la barba e i capelli, che si tagliasse le unghie, e che ogni giorno, facesse un bagno nell’acqua fredda, che lo avrebbe certo fortificato. Era pestilenziale. Cechov la prendeva in giro, e le obbediva: «Mi sono abituato a te come se fossi un bambino — diceva — e senza di te sto male e ho freddo». Lei rispondeva: «Come ti abbraccerò, con quali occhi ti guarderò ed esaminerò in ogni particolare il mio meraviglioso marito».
***
Tutto precipitò. In pochi mesi, i lineamenti del meraviglioso marito dalla «barba bionda» s’incupirono. La tubercolosi s’impadronì del suo organismo, senza lasciare nulla d’intatto o d’incolume. Cechov era soltanto un sistema tubercolotico: tossiva, sputava sangue, stava male di stomaco, soffriva di diarrea, non aveva fiato. Vestirsi lo faceva ansimare. Il peso di un cappotto sulle spalle gli pareva insopportabile. Se faceva quattro passi nel giardino, doveva arrestarsi, senza fiato, con le orecchie ronzanti. Se gli altri lo avevano sempre divertito, ora si sentiva disperatamente solo: solo, seduto nel suo studio, o disteso su un divano, come se fosse già nella tomba. Quando gli amici cercavano di rallegrarlo, stava in silenzio, tossicchiando, con un’espressione tetra, e ascoltava gli altri con un’indifferenza quasi letargica, il bastone tra le ginocchia, lo sguardo perduto nelle lontananze. Scriveva sei righe al giorno con immensa fatica: gli sembrava sommamente inutile farlo, e non riusciva a esprimere i suoi sentimenti. Avrebbe voluto smettere per sempre di essere uno scrittore: oppure diceva che tutto quello che aveva scritto apparteneva al passato. Non sapeva quello che avrebbe scritto in futuro, e questo lo tormentava moltissimo.
In questa vita cancellata, gli restavano due desideri: avere un figlio, e comporre qualcosa di lieto. Scrisse gioiosamente alla moglie: «Adesso ho una voglia terribile che tu metta al mondo un mezzo tedeschino, che diverta e riempia la tua vita… Avrai un bambino che romperà i piatti, e tirerà per la coda il tuo cagnolino e tu lo guarderai e sarai consolata». Quando il bambino avrebbe avuto un anno e mezzo, lui sarebbe stato un vecchio curvo, con la barba grigia e la bocca sdentata. Ma il bambino non venne alla luce.
Quanto al vaudeville, era un antico desiderio: da anni sognava di scrivere qualcosa di gaio e di frivolo, una specie di farsa, con una confusione del diavolo. Così compose Il giardino dei ciliegi: ci lavorò con entusiasmo, lo abbandonò e lo riprese: fu deluso e si entusiasmò di nuovo: la sua farsa gli sembrò qualcosa «di smisurato e di colossale», che gli faceva paura; e alla fine, placato e gioioso, spedì a Mosca la sua commedia il 13 o 14 ottobre 1903. Voleva partire anche lui per Mosca. «Svelta, svelta, chiamami vicino a te, a Mosca — scrisse alla moglie. Non ne posso più di vivere senza teatro e senza letteratura… Non attendo che il tuo ordine di fare la valigia e di partire per Mosca. A Mosca! A Mosca! Questo non è detto da tre sorelle, ma da un marito». Fu quasi il suo ultimo gioco.
La rappresentazione del Giardino dei ciliegi non gli piacque: secondo lui, Stanislavskij non l’aveva compreso, interpretandolo come un dramma sociale. E poi aveva fissato la prima della commedia il 17 gennaio 1904, in onore del suo quarantaquattresimo compleanno. Lui detestava i compleanni. La sera del 17 gennaio, restò a casa. Fu costretto ad andare a teatro alla fine del terzo atto, quando venne trascinato sulla scena, mentre la sala lo applaudiva in delirio. Ci furono discorsi, enfaticissimi e noiosissimi, di giornalisti, attori, presidenti di circoli letterari, che incensarono per più di un’ora un uomo che detestava i complimenti. Pallido, esangue, Cechov strizzava gli occhi sotto la luce cruda della ribalta. Non riusciva a reprimere gli accessi di tosse: non sapeva che fare delle sue mani scheletriche. Dopo l’ultima ovazione, si ritirò, senza aver pronunciato una parola di ringraziamento. Stanislavskij disse crudelmente: «Si respirava come un tanfo di funerale». Il funerale non era lontano.
Il 10 giugno 1904, Cechov e la moglie giunsero a Badenweiler, una piccola città d’acque non lontana da Basilea. Il tempo era fresco e bellissimo. Dal mattino alle sette di sera, Cechov restava nel lussureggiante giardino di villa Friederike, seduto, o a metà allungato in una poltrona a sdraio. Il sole non bruciava, ma accarezzava la pelle. Non scriveva, non leggeva: forse non pensava; come aveva sempre sognato, Cechov era diventato un puro contemplatore, che guardava il giardino, i fiori splendenti, le montagne coperte di boschi, i pochi tedeschi che percorrevano la strada. Forse avrebbe voluto vivere così, con gli occhi aperti sul vuoto, il pochissimo tempo che gli restava da vivere.
Qualche giorno dopo, annoiato di contemplare il giardino vuoto, Cechov andò in un albergo: stava seduto sul balcone della sua camera, e guardava, per ore, le persone che andavano e venivano all’ufficio postale. «La salute — scrisse alla sorella — torna non ad once, ma a libbre». Verso la fine del mese, Badenweiler venne assalita da un caldo feroce, e Cechov si senti soffocare. Sognò di andarsene: ma dove? Il 1° luglio sembrò star meglio: ma a mezzanotte e mezza si svegliò e chiese ad Olga di chiamare un medico. Il dottor Schwörer arrivò alle due del mattino. Cechov si rialzò sul guanciale e disse con tranquillità grave: Ich sterbe, «io muoio». Il medico ordinò una bombola di ossigeno. Cechov protestò: «Ora, tutto è inutile. Prima che portino la bombola, sarò un cadavere». Allora il dottor Schwörer ordinò una bottiglia di champagne. Cechov prese il bicchiere, si volse ad Olga e disse sorridendo: «È molto tempo che non ho bevuto champagne». Vuotò lentamente il bicchiere, e si distese sul fianco sinistro. Qualche istante dopo, smise di respirare.

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