L’Italia sposta una nave da guerra verso il Libano

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ROMA — Un cacciatorpediniere lanciamissili può garantire meglio la sicurezza dei soldati italiani in Libano: è questa la riflessione che ha spinto la Difesa a far salpare ieri da Taranto la nave Andrea Doria in direzione Medio Oriente, per «attività di vigilanza e pattugliamento in mare, e controllo dello spazio aereo». Gli Stati maggiori garantiscono che si tratta solo di una precauzione: la presenza di una nave militare è prevista nei decreti che autorizzano la missione Unifil sotto la bandiera delle Nazioni Unite, «qualora se ne presentasse la necessità».
La necessità, evidentemente, si è presentata, con la crisi siriana e l’ipotesi di un intervento americano. Ma non è chiaro “chi” abbia pesato le esigenze di
tutela dei militari italiani e le conseguenze in termini di tensione e possibile escalation. Il portavoce della Difesa parla di «decisione autonoma delle Forze armate», dunque non una scelta politica. Ma allo stesso tempo esclude che ci sia stata una richiesta del comando di Unifil, guidato dall’italiano Paolo Serra. In realtà è quanto meno improbabile che la scelta di far partire l’Andrea Doria sia una decisione “tecnica” di routine, non valutata né approvata a livello di esecutivo.
La presenza di una nave di 7300 tonnellate con quasi 200 uomini a bordo, dotata di batterie di cannoni e rampe lanciamissili, è forse di conforto ai militari dell’“Operazione Leonte”. I caschi blu (oggi di 37 nazioni) erano stati schierati nel 2006 per tenere lontani i militari di Israele e gli sciiti di Hezbollah, che controlla il sud del Libano. Ma sono in molti a pensare che il contingente Onu rischia oggi di diventare un prezioso ostaggio delle milizie sciite. Il “partito di Dio” libanese è schierato con il regime di Damasco e opera già in territorio siriano contro i ribelli a prevalenza sunnita. La prospettiva di una rappresaglia sull’Unifil in caso di attacco è tutt’altro che improbabile.
E non è detto che la presenza di una nave armata di tutto punto al largo di Tiro possa alleggerire la situazione, anche perché a prima vista un cacciatorpediniere non appare davvero lo strumento ideale per difendersi da attentati e attacchi di guerriglia. Gli esperti sottolineano che l’Andrea Doria non è neanche adatta per un’evacuazione d’emergenza dei militari: per questo servirebbero navi come la San Marco. E nemmeno gli armamenti dell’Andrea Doria sono adatti alla missione: i missili sono del tipo “antinave” o da difesa antiaerea, non certo l’ideale per ipotetici attacchi contro bersagli a terra.
La partenza della nave fa comunque crescere i rischi che il nostro Paese “scivoli” verso un maggior coinvolgimento nella crisi siriana. La pressione Usa è forte, al punto che un incontro fra John Kerry e i delegati della Lega araba, previsto a Roma, è stato spostato a Parigi, il cui governo è interventista a differenza del nostro. La luce verde della Casa Bianca ai primi bombardamenti spingerebbe con tutta probabilità Roma a chiedere a Washington di rinunciare a coinvolgere le basi in territorio italiano. E finirebbe con i droni di Sigonella, gli F-16 di Aviano e i parà di Vicenza costretti a “far tappa” ad Incirlik prima di colpire in Siria.


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