L’errante Maqroll, perso in un viaggio senza approdi

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Sono ben pochi i necrologi che, da una parte e dall’altra dell’oceano, non abbiano accostato la figura di Álvaro Mutis a quella di Gabriel García Márquez, come per applicare al suo nome una sbrigativa etichetta che lo identifichi agli occhi del grande pubblico e che funga in qualche modo da garanzia che sì, vale la pena di parlare di lui e della sua morte, avvenuta questo 22 di settembre a Città del Messico, dove risiedeva da oltre cinquant’anni.
I due scrittori, in effetti, erano legati da una amicizia lunga e intensa quanto una vita (si erano conosciuti nel 1950), ma Álvaro Mutis, nato nel 1923 a Bogotà, era ed è molto, molto di più che un semplice amico e sodale di Garcìa Marquez, nonostante il loro stretto legame affettivo e intellettuale fondato soprattutto sulle differenze, piuttosto che su somiglianze quali la nazionalità, il lunghissimo «esilio» messicano e la pratica della scrittura.
Gentiluomo e bon vivant che esprimeva il proprio aristocratico disdegno per il presente attraverso un’incongrua devozione all’idea monarchica, antifascista intransigente che non aveva mai votato in vita sua e che custodiva sotto gli sweater di cachemire un’anima sostanzialmente anarchica, ex galeotto mostruosamente colto ed ex speaker radiofonico dalla voce vellutata, letterato carico di premi – dal Médicis al Roger Caillois, dal Príncipe de Asturias al Cervantes – che si era guadagnato da vivere con i mestieri più diversi, narratore che per un quarantennio scrisse soprattutto poesia e che pubblicò il suo primo romanzo dopo i sessant’anni, persona gioiosamente eccentrica e, diceva Marquez, «favolosamente simpatica», Mutis va oggi ricordato come uno dei nomi più grandi della letteratura contemporanea di lingua spagnola, tanto per la sua straordinaria produzione poetica quanto per una narrativa che, secondo Gabriele Bizzarri (autore dell’eccellente saggio L’epica degradata di Álvaro Mutis, 2006, Biblioteca di Studi Ispanici), rappresenta un tentativo letterario ed esistenziale di recuperare la forma e lo spirito dell’antico romanzo di avventure, filtrato però attraverso una prodigiosa erudizione e intrecciato a innumerevoli rimandi letterari.
Forse non sono molti i lettori italiani che conoscono la poesia di Mutis, tradotta e presentata con cura e passione tanto da Martha Canfield (Gli elementi del disastro Le lettere 1997; Disperanza del Gabbiere FPE 2000; Le opere perdute Ponte Sisto 2009) quanto da Fabio Rodriguez Amaya (Summa di Maqroll il Gabbiere, Einaudi 1993), ma quanti l’hanno letta hanno potuto misurarsi con la rinuncia all’enfasi, con un’epica sommessa che racconta di battaglie e stendardi, con una immensa padronanza del linguaggio, con l’ineludibile presenza della morte o con le prime apparizioni di Maqroll il Gabbiere, consapevole del fatto che «nessuno ascolta nessuno» e che, se Dio ha creato il mondo, deve averlo fatto in un giorno in cui era malato.
È proprio a Maqroll che lo scrittore colombiano deve la sua più vasta popolarità: un eroe perdente, desolato e tuttavia sempre pronto a partire per nuove avventure, che compare prima nei versi di Mutis per poi transitare nella sua prosa e diventare protagonista di ben sette romanzi (a partire dal primo, La neve dell’Ammiraglio, uscito in lingua originale nel 1986, in Italia sono stati pubblicati da Einaudi) e di tre racconti, nonché del saggio Contextos para Maqroll (1997).
Marinaio consacrato a una solitudine estrema (è un gabbiere, colui che osserva l’orizzonte dall’alto, sospeso tra la nave e il cielo), e a una sempre tradita «vocazione per la felicità», l’errante Maqroll potrebbe somigliare a un Sinbad sfortunato e votato a imprese minime, ma, nel loro glorioso fallimento, memorabili: lo stesso, verrebbe da dire, che si incontra nel meraviglioso e dimenticato Se il vecchio Sinbad tornasse alle isole… (Marietti 1989) dello scrittore galiziano Álvaro Cunqueiro, in cui l’anziano avventuriero torna a navigare non solo sul mare, ma tra le ombre della propria cecità senile. E davvero i Sinbad creati dai due Álvaro – narratori così diversi e lontani – sembrano assomigliarsi, grazie a una sorta di decostruzione e reinvenzione della grande avventura di mare, trasformata nella mancata conquista di un ignoto continuamente perseguito e mai afferrato.
In una prosa che come poche accetta, accoglie e include la poesia, il Maqroll di Mutis narra un viaggio senza approdi (l’unico possibile è in realtà la morte), vera ricerca di senso che esprime una intensa nostalgia del mito, incarnato in una figura consacrata alla scofitta e che si muove in un mondo la cui barocca esuberanza ci ricorda come lo scrittore colombiano, cresciuto in Belgio e provvisto di una formazione culturale di stampo nettamente europeo, sia in fondo «tropicale» e latinoamericano almeno quanto l’amico Marquez, al cui realismo magico rimase sempre estraneo (il cosiddetto Boom era, secondo Mutis, solo «un trucco letterario artificiale, anche se pieno di talento»).
Com’era inevitabile, la fortuna del ciclo di Maqroll si è sovrapposta a quella dell’opera poetica di Mutis, anche se è proprio quest’ultima a fare di lui un gigante, e a volte ha messo in secondo piano altre sue opere di grande valore, come L’ultimo scalo del Tramp Steamer (Adelphi 1991), romanzo la cui bellezza sembra esaltata da una asciutta brevità, o come Diario di Lecumberri (lo si trova in La casa di Araucaíma, Adelphi 1997), il racconto dei sedici mesi che Mutis trascorse in un carcere messicano su richiesta dell’Interpol, per via di una improbabile accusa montata ai suoi danni dalla dittatura del generale colombiano Rojas Pinilla.
Furono quei sedici mesi a cambiare la visione del mondo di Mutis e a segnare una svolta anche nella sua opera; e fu anche grazie a essi, forse, che, pur restando «favolosamente simpatico», divenne capace più di ogni altro di narrare la sconfitta, la delusione e l’impossibilità di essere felici.


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