Le guerre sono ancora inevitabili? Goodbye Lenin, comanda il profitto
Non intendiamo soltanto riferirci alle modifiche che tale fortunata teoria subì nel tempo: dalla «revisionistica» proposta staliniana dei tardi anni Quaranta, secondo cui è più probabile una guerra tra Paesi capitalistici che non una guerra mondiale tra i rappresentanti di opposti sistemi sociali, alla radicale innovazione kruscioviana (XX Congresso del Pcus) della non-inevitabilità delle guerre, che fu peraltro alla base della lunga vicenda della «coesistenza pacifica».
In certo senso — come ebbe ad osservare, alla metà degli anni Novanta, Demetrio Volcic — il pericolo di guerre s’è acuito con la fine, in rapida sequenza, del cosiddetto «socialismo reale». E infatti le guerre sono tornate d’attualità appunto nel ventennio successivo alla fine dell’Urss. Oggi però riproporre, come da taluno si fa, la tesi leninista dell’inevitabilità della guerra, anzi, delle guerre, sembra alquanto arcaico e segnato da ideologie paleo-realistiche (da Lenin a Carl Schmitt). La ormai non breve esperienza del ventennio «post-guerra fredda» ha insegnato molto: financo le grandi autorità «spirituali» vanno al cuore del problema. E ormai le motivazioni di parata (l’uso di armi chimiche, le armi di distruzione di Saddam etc.) — il cui archetipo retorico resta pur sempre la solidarietà mussoliniana per i «fratelli ciamurioti» — hanno mostrato definitivamente la loro intrinseca falsità. Altrimenti non si vede perché nessuno intervenga in Darfur. Come nella celebre novella di Hans Christian Andersen, è toccato ad un metaforico bambino di segnalare che «il re non ha niente indosso!»: che le guerre si provocano, si incrementano e si «giustificano» nell’interesse — evidentemente irresistibile — delle multinazionali delle armi.
Non ha dunque più senso tener dietro, per confutarle o per difenderle, alle costruzioni retoriche addotte per giustificare questa o quella guerra. Le diagnosi di tipo leninista-schmittiano appartengono oramai alla storia antica. Le guerre che punteggiano il nostro presente hanno tutte una robusta motivazione molto «materialistica»: alimentare il colossale profitto dei fabbricanti e venditori di armi annidati nel cuore del potere dei Paesi più ricchi e «per bene» è coessenziale ad essi. Siamo entrati dunque in una fase della storia in cui la retorica del bellum iustum ha finalmente rivelato la sua impudicizia, e si può «giocare a carte scoperte».
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