L’asse incrinato con Parigi mette a rischio anche Berlino
La storia continentale, i conflitti, i trattati, la moneta unica hanno sempre confermato il «teorema». Ma oggi? Quanto ancora i destini dell’Europa dipendono dal motore franco-tedesco?
Se la domanda viene posta a Parigi, il peso politico della Francia viene accentuato, con la ferma convinzione di riuscire a scalfire (magari con la complicità dei Paesi del sud) i dogmi tedeschi in economia, soprattutto se domenica Angela Merkel, nonostante il trionfo annunciato, fosse costretta alla grande coalizione con i socialdemocratici.
Se la domanda si fa a Berlino, vi viene spiegato che la posizione della Germania, salvo qualche correttivo di politica sociale interna, peraltro drammaticamente urgente, non cambierà dopo le elezioni. Si aggiunge che sono già state fatte concessioni importanti. La Germania non ha nessuna volontà di dominio continentale, anzi ne ha una storica paura, salvo la prerogativa di dettare le regole del modello europeo, con la presunzione di farlo nell’interesse di tutti: cicale e formiche.
La somma di complessi di superiorità e d’inferiorità non fa zero, ma un insieme di complicazioni. Lo si vede nella politica estera, laddove le divergenze fra Parigi e Berlino rasentano lo strabismo: non solo quando si tratta di intervenire militarmente, ma anche nella proiezione degli interessi strategici. La Francia guarda al Mediterraneo e alle ex colonie, la Germania flirta apertamente con Russia e Cina. La Francia difende l’eccezione culturale, la Germania firmerebbe subito il trattato di libero scambio con gli Usa. La Francia mostra muscoli che non ha, la Germania ostenta neutralismo e esporta armi.
Ma lo si vede soprattutto nel confronto impietoso fra lo stato di salute dei due Paesi, a partire dal decennio Chirac-Schröder, anche se entrambi pretendono di rappresentare il modello di società europea immaginato dai padri fondatori. La Germania in crescita ha ristrutturato lo Stato sociale, rilanciato economia e esportazioni, tagliato il costo del lavoro, sia pure al prezzo di precariato diffuso. La Francia in recessione ha gonfiato la spesa pubblica e l’assistenzialismo, perso quote di mercato, aumentato la disoccupazione, rinviato le riforme strutturali, nonostante i tentativi di Sarkozy e i ripensamenti di Hollande.
Il divario di ricchezza prodotta e competitività fra i due Paesi è cresciuto, non solo nei giudizi delle agenzie di rating. La Francia può soltanto vantare un welfare più generalizzato, che però non fa diminuire precariato e povertà, e una fortissima crescita demografica. Il che non è di per sé indice di fiducia nel futuro, vista l’aria depressa che aleggia sulle facce dei francesi.
Di questo passo, le domande d’attualità sono altre: quanto sia vicina l’implosione della coppia franco-tedesca e se sia ancora possibile una ritrovata intesa fra Parigi e Berlino per rilanciare l’Europa e salvare l’euro. Di certo, non sono di aiuto le ondate di germanofobia (Le Monde diplomatique parla di «nazionalismo capitalistico»), l’euroscetticismo populista che serpeggia in entrambi i Paesi, le teorie sull’uscita o il ridisegno dall’euro supportate anche da economisti e accademici.
La debolezza francese non serve a Berlino, che necessita di contrappesi forti per non essere continuamente accusata di essere troppo potente o di non esserlo abbastanza per esercitare un’autentica leadership. La Germania potente, ma invecchiata e in calo demografico, ha bisogno di un’Europa forte per non finire ai margini della competitività internazionale.
La Francia deve ritrovare una «road map» delle riforme strutturali ed economiche. La Germania deve riflettere sui limiti della propria politica, sulla presunzione del modello unico di salute finanziaria e sui disastri sociali che ha indirettamente provocato nel resto d’Europa. Ma il tempo stringe. Le elezioni europee di primavera potrebbe essere una prova senza appello.
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