La rivoluzione di Francesco

by Sergio Segio | 23 Settembre 2013 7:40

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Segni che scuotono le coscienze dei singoli, non solo dei credenti, perché la riscossa dell’uomo dagli idoli del denaro e dalla condanna delle disuguaglianze sociali è aspirazione comune di chi cerca Dio e di chi cerca l’umanità oltre se stesso. Segni che parlano di un cambiamento profondo, sociale e culturale, il quale non è iscritto in una nuova ideologia, e tuttavia vuole spezzare il giogo dell’ideologia ora dominante, quella della fine della storia, dell’impossibile fraternità degli uomini, dell’individualismo necessario, della disparità sociale come motore immobile della globalizzazione.
Quella di Francesco è una rivoluzione. E forse la parola ne riduce persino la portata. Avevamo capito dai primi gesti del Papa, dalla sua semplicità, dall’autenticità evangelica, dal suo richiamarsi continuamente a Gesù prima che alla dottrina elaborata nella millenaria storia della Chiesa, che al conclave era accaduto qualcosa di molto importante. Una Chiesa stanca e ferita dagli scandali, messa all’angolo dalla secolarizzazione dell’Occidente, incapace di fronteggiare non tanto la modernità quanto i suoi derivati, in primo luogo il sistema e il potere dell’informazione, era stata capace di un salto imprevedibile: era andata a prendere alla «fine del mondo» il nuovo vescovo di Roma. Per settimane abbiamo osservato, e scritto, di quest’uomo che rifiutava i simboli della regalità, che indicava il centro nelle periferie, anzi nelle «frontiere», che chiedeva alla Chiesa di perdonare prima di giudicare, che parlava della misericordia come cemento di una nuova identità popolare. Per analizzare quanto stava accadendo, i più hanno usato due categorie interpretative: la continuità dell’impianto teologico e il capovolgimento della prospettiva pastorale. In altre parole: nulla cambiava nella dottrina e negli insegnamenti morali della Chiesa, mentre tutto cambiava nel modo di porsi della Chiesa nel mondo, nella testimonianza della fede, nella condivisione della vita concreta. Finalmente il vento del Concilio Vaticano II spazzava via le resistenze e le paure di questi cinquant’anni.
Eppure, anche quelle categorie si sono dimostrate parziali e insufficienti. La bellissima intervista di Francesco a padre Antonio Spadaro, direttore de la Civiltà cattolica, non consente più di dividere l’ortodossia dalla prassi. Il cambio del punto di vista non lascerà indenne neppure la teologia. Se la povertà, il bisogno, la sofferenza sono il luogo privilegiato della testimonianza, se Dio vive anche nella relazione tra gli uomini e dunque l’impronta di Dio è presente ovunque, compreso chi cerca senza credere, se la fraternità vale più del giudizio morale, se il perdono è così radicale da ricostruire un percorso di liberazione dopo qualunque errore umano, il cambiamento non può esser confinato fuori dal nucleo vitale del rapporto tra fede e storia, anzi tra Dio e la vicenda dell’uomo. Ieri il Papa ha improvvisato, davanti a una folla di operai espulsi dalle fabbriche, di esodati, di giovani alla disperata ricerca di occupazione, una preghiera commovente: «Signore Dio guardaci, ci manca il lavoro. Gli idoli vogliono rubarci la dignità. I sistemi ingiusti vogliono rubarci la speranza. Signore, aiutaci a dimenticare l’egoismo e a sentire il “noi”, il “noi popolo” che vuole andare avanti. Insegnaci a lottare per il lavoro». Non bastano più neppure le categorie fin qui usate per interpretare l’evoluzione della dottrina sociale. Nell’intervista a la Civiltà cattolica Francesco riprende e rielabora un passo a lungo dimenticato della Lumen Gentium: nel senso della fede del «popolo di Dio» c’è una verità che non vale meno del dogma. È una delle espressioni più anticlericali del Concilio.
Nell’Europa, dove le culture cristiane sono alla fondamenta degli ordinamenti costituzionali democratici, quel riferimento al popolo è suonato spesso impreciso, indistinto. Ma Francesco viene dalla «fine del mondo»: e come ha detto che l’impronta di Dio è anche in chi non crede, come ha detto che il cristiano non possiede la verità terrena (semmai è posseduto da quella divina), così ha recuperato quelle parole per dire che anche attraverso la dimensione comunitaria del popolo si esprime il Dio della storia.
Il cattolicesimo democratico ha fatto della cultura della mediazione la modalità laica della sua partecipazione alla cosa pubblica e al bene comune. Nella Chiesa italiana, nell’ultimo ventennio, c’è stata una dialettica, anzi, tra cultura della mediazione e cultura della presenza, che ha messo l’accento sull’autonoma forza sociale del cattolicesimo, proprio mentre svaniva l’unità politica. Anche queste categorie rischiano ora di non servire più. Francesco tratta il vangelo come qualcosa di tremendamente più immediato e più esigente. Rispetta le mediazioni, ma non le cerca. Chiede ai cristiani di stare dove il mondo ha bisogno, ha paura, ha peccato, è senza speranza, è ai margini, è suddito di un potere nuovo e sovrastante.
Chi crede è chiamato a cambiare, e non in superficie. Ma la rivoluzione di Francesco interpella tutti. Non è soltanto l’abbattimento di una barriera culturale, anche se non sarebbe poco. Non è il «dialogo» con la modernità e con il liberalismo l’unica posta in gioco di questa partita. Non è questione per soli intellettuali. La partita vera riguarda l’uomo nel mondo di domani. Riguarda il dominio del mercato e del denaro sull’umanità degli uomini. Riguarda la crisi delle sovranità democratiche, il trasferimento dei poteri reali a entità che sfuggono alle comunità e ai popoli. Una nuova schiavitù dell’uomo è possibile. E già si esprime in una solitudine, in una crisi antropologica, di cui la dimensione «morale» fin qui insistentemente segnalata dalla Chiesa è solo una parte.
Francesco ha travolto i fragili paletti dei valori «non negoziabili» (nel senso che i principi irrinunciabili dei credenti non possono condurre alla separazione, né esonerano dalla carità). E pone la sua testimonianza a servizio di una riscossa dell’uomo e dei valori più profondi di comunità. La dimensione trascendente della politica può tornare a farsi strumento di una rinnovata conoscenza, di un cambiamento culturale, di una battaglia sociale contro le nuove schiavitù. La preghiera «Insegnaci a lottare per il lavoro» vuol dire tanto per chi crede. Ma vuol dire non meno per chi desidera battersi per un mondo migliore.

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