La religione civile non abita in Italia
La classe dirigente risorgimentale cercò di dare all’Italia un’identità nazionale con la scuola, l’esercito, i prefetti. Ma non bastava. Quindi sul piano politico finì per adottare la tecnica del trasformismo, che permetteva di «attutire i contrasti» e coinvolgere i suoi avversari, perlopiù estranei a una visione liberale, in una gestione del potere al ribasso. Poi venne il fascismo, che cercò d’imporre «una cittadinanza militarizzata e ideologizzata», ma si assestò poi nella pratica di una «nazionalizzazione burocratica», le cui fondamenta si rivelarono fragili. In epoca democratica nessun progetto volto alla costruzione di valori condivisi ha mai conquistato una solida egemonia, tanto che oggi nella vita pubblica domina la deprimente (e al tempo stesso inquietante) sensazione di vuoto, cui dà voce lo storico Giovanni De Luna nel saggio Una politica senza religione (Einaudi).
Le religione cui si riferisce il titolo del libro non s’identifica ovviamente con alcun culto confessionale. Si tratta di una «religione civile», cioè del complesso di memorie, regole, idee attorno alle quali si organizza la convivenza in una nazione democratica moderna. Nulla che abbia a che vedere con la sacralizzazione della politica, anticamera dei regimi totalitari, ma piuttosto il prodotto di un «continuo dinamismo» tra eredità del passato e mutamenti storici.
Questo è l’ideale cui guarda De Luna. Ben diverso, purtroppo, lo stato di cose prodotto dalla sequela di fallimenti che il suo libro analizza. Abortì l’utopia azionista (cara a De Luna) di portare al governo il fervore della lotta partigiana. Ma fallì anche il disegno clericale di fare dell’Italia postbellica una «nazione cattolica», fedele innanzitutto alla Chiesa. Il rilancio dell’antifascismo in chiave unitaria, perseguito dal Pci, si appiattì «in una dimensione troppo esasperatamente partitica». La stessa ipotesi di un «patriottismo costituzionale», tuttora in campo, sconta i limiti di una Carta fondamentale caratterizzata dal «complesso del tiranno», cioè pensata non tanto per assicurare un buon funzionamento alle istituzioni quanto per bloccare in partenza le temute tentazioni autoritarie.
Sotto il peso di tanti insuccessi, i partiti tradizionali avevano sostanzialmente abdicato già prima di essere travolti nel biennio 1992-94. Ormai l’unico residuo, ma possente, fattore d’unificazione del Paese era estraneo alla politica: si trattava della «religione dei consumi» affermatasi grazie al vorticoso sviluppo economico. De Luna guarda al fenomeno con occhi severi, utilizzando il concetto pasoliniano di «omologazione», mentre pare più equo mettere in luce anche i suoi aspetti positivi: la motorizzazione di massa è stata un grande volano di libertà individuale; gli elettrodomestici hanno dato un contributo enorme all’emancipazione femminile; la televisione ha fornito per la prima volta a milioni di persone un contatto permanente con la lingua italiana parlata in modo corretto.
Di certo però il culto dei consumi non basta a tenere insieme un Paese e neppure una coalizione governativa. Il blocco guidato da Silvio Berlusconi, la cui leadership è stata soprattutto espressione della crisi della politica, ha proposto agli italiani come segno di appartenenza «il sentirsi tutti figli dell0 stesso benessere»: una rappresentazione dei fatti contraddetta dalle diseguaglianze crescenti e poi spazzata via dalla crisi finanziaria internazionale. Lo slogan del «nuovo miracolo italiano», che pure ha funzionato per parecchi anni, ormai ha il sapore amaro della derisione.
Naufragate quelle suggestioni, proprio l’emergenza economica, che riduce le risorse disponibili per i consumi individuali come per la protezione sociale, rendendo necessario un doloroso programma riformatore, richiederebbe un risveglio della politica, che in fasi come queste, scrive giustamente De Luna, non può ridursi «alla semplice amministrazione tecnica dell’esistente», pena il rischio di «soccombere». È tempo di «un esame di coscienza», conclude l’autore, a cui nessun italiano può sottrarsi.
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